Nei mesi caratterizzati dal confinamento e isolamento dovuti alla pandemia, sono rimasta molto colpita nel constatare quanto i ragazzi, soprattutto se appena maggiorenni, quindi fuori dai circuiti scolastici e non ancora entrati nel mondo del lavoro, non trovassero una loro forma di rappresentazione nei media, che potesse far sentire riconosciuti e, quindi, visti.
Quelli di cui vado a raccontarvi sono ragazzi poco più che maggiorenni che hanno vissuto, come tutti noi, l’esperienza del lockdown e della divisione regionale in zone rosse, gialle e verdi. Se entriamo insieme, in punta di piedi, nello loro stanze troviamo, nei mesi segnati dall’esperienza della pandemia, silenzio.
Molti di questi ragazzi dormono fino a tardi, spesso giocano ai videogiochi. Principalmente soli, per non eludere la distanza di sicurezza, raramente qualcuno si affaccia nelle stanze condivise della casa per chiedere informazioni sul “mondo fuori”.
Eh sì, perché il mondo è stato proprio fuori. Loro cercano, sempre per rispettare le regole da noi “adulti” indicategli, di non uscire, poiché rischiano la multa, perché non hanno reali motivi di necessità per uscire, non avendo nessuno fuori ad aspettarli.
Sono ragazzi non rappresentati nei giornali e telegiornali, non rappresentati nelle istituzioni, che, forse, oggi, hanno un’altra emergenza più grave, più imminente da fronteggiare. Quello che stanno vivendo è un tempo vuoto, non hanno un lavoro che li ha lasciati a casa, per stare in quarantena, non possono cercare un lavoro, perché il mercato sembra fermo, immobile. I più fortunati, che avevano un lavoro, non avevano un contratto e, quindi, non hanno alcun ammortizzatore sociale che possa resistere contro una pandemia. Eppure, e di questo son rimasta estremamente colpita, non hanno paura. Forse non hanno neanche voglia di ricominciare a lavorare o a vivere quel mondo fuori. Ma come mai?
Ho iniziato a pensare che al centro di questa “non voglia” possa esserci una sorta di alienazione da un mondo reale che li vorrebbe preparati, pronti, energici, responsivi rispetto a opportunità di lavoro e, mi sento di dire, di vita, che opportunità spesso non sono.
Forse questo stato alienato, lontano dalle pressioni del contesto sociale, è più accogliente, accudente e protettivo del mondo fuori, soprattutto per chi quell’accoglienza e quella protezione non l’ha potuta mai sperimentare.
Credo che quello che è cambiato, con l’emergenza Covid-19, sia proprio l’impatto con la negatività e la pericolosità dell’ambiente psichico in cui siamo tutti immersi. Il mondo fuori, finalmente, credo che direbbero questi ragazzi, spaventa anche noi, è contagioso, può essere mortifico e mortale. E allora ognuno chiuso nella propria stanza, si sta anche meglio.
Quante volte tutti noi abbiamo pensato, in questi mesi caratterizzati dalla pandemia, che uscire poteva essere pericoloso, che quella cosa tanto urgente fino a un mese prima poteva anche non essere fatta o non si poteva proprio fare, e non importava, si poteva continuare a sopravvivere nella propria casa, da soli o, per chi è più fortunato, in compagnia, in un contesto positivo, dove c’è amore. In questo lungo anno abbiamo condiviso tutti le stesse paure, gli stessi rischi, tanto che il coronavirus è stato definito un virus “comunista” e simmetrico, che non fa distinzioni sessuali, di razza, di ceto. Siamo stati, allora, almeno per un momento, simili a questi giovani, per il timore del virus, per la difficoltà di pensare a progetti personali e lavorativi di lunga traiettoria e durata, per l’instabilità che abbiamo provato.
Questo è il terribile lascito del confinamento legato all’emergenza coronavirus, si può stare anche a casa, facendo sì, una pseudo-vita, ma sopravvivendo, come si può, se si può. Perché il mondo fuori può essere duro, feroce, brutale, doloroso da sostenere.
Siamo, allora, tutti hikikomori? No, non credo questo, ma penso che la scoperta della fragilità e della paura sia diventata, forse, finalmente parte integrante della nostra vita: quanto durerà tutto questo? Quando potrò tornare a fare la mia vita? Come sarà parlare con le persone intorno a me a un metro di distanza e con il filtro di una mascherina?
Queste domande creano un senso di comunità, che ci avvicina a questi ragazzi non rappresentati, perché ci sentiamo tutti un po’ come loro. Sembra difficile però per questi giovani, destinati a rimanere precari e frammentati, coalizzarsi. Credo che solo andando contro questa corrente sarà possibile ritrovarsi, unire le forze e produrre qualcosa di realmente nuovo, che finalmente ci e li rappresenti.
Credo e spero che questi ragazzi possano iniziare a presentarsi al mondo attraverso i social media e attraverso delle immagini che possano far riflettere sul loro, e in parte nostro, stato emotivo. Sono certa che la genuinità e il sarcasmo non manchi. Forse a mancare è proprio quella spinta a farsi vedere, a denunciare un problema, a trasformare in immagine un pensiero e una rappresentazione di sé ancora troppo profondamente frammentata.
pubblicato in 180gradi.org
immagine di Roman Drits