Ci sono diverse ragioni che spingono le persone ad iniziare una psicoterapia.
Solitamente i motivi sono legati ad un malessere, ad un problema o disagio, ad una sofferenza, potremmo dire ad ‘un meno’, ossia a qualcosa che si sente come mancante o non (più) funzionante. Alla percezione di questa mancanza si associa la motivazione a volerla colmare, aggiustare. Da qui l’idea di rivolgersi dunque ad un professionista, al quale chiedere cosa fare, al quale fare delle domande per poter riempire il vuoto, e ricevere delle soddisfacenti risposte, come un ‘esperto’ da consultare.

Questa convinzione può creare l’aspettativa che nella relazione psicoterapeutica il paziente stia in una posizione passiva, di apprendimento unilaterale, di ricezione di una sorta di lezione impartita dallo psicologo che rappresenta il saggio, colui che conosce le risposte.
Tale modo di intendere il rapporto psicologo-paziente solleva la persona che fa domanda di psicoterapia da qualsiasi implicazione e coinvolgimento, come se dovesse avvenire una guarigione magica fornita dal professionista. Inoltre, questo presupporrebbe che lo psicologo conosca già la soluzione per i disagi portati dal paziente, al di là della specificità della sua richiesta e della storia della sua vita.

Il rapporto psicoterapeutico, se si riducesse a questo, non consentirebbe l’espressione del sé e negherebbe l’esistenza della relazione che si forma all’interno della stanza tra il paziente e lo psicologo. Se lo si intendesse come una lezione, sarebbe allora standardizzata e uguale per tutti, perché le risposte e soluzioni da fornire si conoscerebbero a prescindere, al di là della storia del paziente. Si negherebbe la possibilità di dare senso alla domanda attraverso il rintracciare le risorse e la storia delle persone.

La psicoterapia necessita la contestualizzazione dei temi portati dai pazienti entro la loro storia familiare, culturale e relazionale, altrimenti sarebbe come un voler dare senso al disagio e alla sofferenza portata come se si fosse formata da zero, e non all’interno di un contesto relazionale e culturale.

La convinzione che la terapia possa dare risposte nette, mette la persona in una posizione di immobilità e sottomissione.
Convocare invece il paziente consente un’esplorazione non scontata delle sue risorse, dei suoi interessi e dei suoi desideri, e permette la costruzione di una relazione psicoterapeutica che abbia come obiettivo lo sviluppo di nuove modalità di rapporto e di prospettiva che siano più sostenibili.

Nella psicoterapia è utile non solo proiettarsi al nuovo, al rinnovamento, al cosiddetto cambiamento, ma è importante anche recuperare le risorse che si hanno, partendo dal riconoscimento di queste. Darsi la possibilità di guardarsi intorno, di valorizzare quello che si ha a già a disposizione, ma che forse è stato sempre dato per scontato, è un processo di ri- scoperta, che consente anche di ricostruire la propria storia, dunque ‘chi sono, cosa ho fatto e cosa posso fare’.

Allora forse trovare domande anzichè risposte nella psicoterapia potrebbe essere per certi versi frustrante, ma anche ampiamente stimolante, perchè consente di iniziare un viaggio, una scoperta (e ri-scoperta) di sé e dei modi in cui si sta in rapporto al mondo.
Ricevere soltanto delle risposte non sarebbe noioso?

Bibliografia
Carli R. (2011) Divagazioni sull’identità. Rivista di Psicologia Clinica.
Carli R. (2015) Perché si va dallo psicologo clinico: Ripensando all’analisi della domanda. Rivista di Psicologia Clinica.

Lucamaleonte, (Roma, 2016) Guarda il passato, semina il presente, coltiva il futuro.

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