di Giordana Festa
Ogni anno migliaia di persone intraprendono viaggi disperati per lasciarsi alle spalle
guerre, persecuzioni, povertà estrema. Si muovono con la speranza di un futuro
migliore, ma troppo spesso il cammino diventa un’odissea fatta di violenze,
privazioni e lutti.
La rotta del Mediterraneo centrale, tristemente nota come la più pericolosa, è stata
definita “la via dell’inferno”. I numeri aiutano a capire la portata del fenomeno: nel
2023 oltre 158.000 persone sono arrivate in Italia via mare, e più di 30.000 hanno
perso la vita nel Mediterraneo negli ultimi dieci anni. Dietro ogni cifra c’è un volto,
una storia spezzata o appena sopravvissuta.
Quando parliamo di migrazione, spesso pensiamo alle difficoltà materiali: fame, sete,
prigionia, soprusi, pericoli del mare. Ma c’è un’altra ferita, meno visibile, che
accompagna chi arriva. Non è un singolo evento, ma una somma di paure e violenze
che si accumulano nel tempo.
Molti migranti soffrono di incubi, flashback, stati di allerta costante. Altri
sperimentano un dolore più silenzioso: la perdita di fiducia in sé stessi e negli altri,
un senso di vergogna o di inutilità. E spesso, quando le parole non bastano, il corpo
diventa il portavoce del dolore: mal di testa, dolori cronici, problemi digestivi. È
come se il corpo parlasse al posto della voce.
Immaginiamo di aver perso tutto: la casa, la famiglia, la certezza di appartenere a un
luogo. Per ricominciare, serve prima di tutto sentirsi di nuovo al sicuro. È qui che
entra in gioco l’ascolto: uno spazio protetto in cui chi ha vissuto l’indicibile può
essere accolto senza giudizi. Non sempre servono le parole. A volte basta il silenzio
condiviso, un gesto, la disponibilità di qualcuno che resta accanto e non scappa
davanti al dolore. Per chi ha vissuto la disumanizzazione, ritrovare una relazione
autentica può essere il primo passo verso la ricostruzione di sé.
Il malessere dei migranti non nasce solo da quello che hanno vissuto nei paesi di
origine o durante il viaggio. Spesso continua anche nei luoghi di arrivo. Politiche
restrittive, ostilità sociale, discriminazioni: tutto questo può riaprire ferite, alimentare
ansia e insicurezza.
Parlare di migrazione non significa solo contare sbarchi o discutere di leggi.
Significa provare a immaginare, almeno per un istante, cosa vuol dire lasciare la
propria terra, rischiare la vita e affrontare un futuro incerto.
Il viaggio dei migranti non finisce quando toccano terra. Dentro di loro resta un
bagaglio invisibile, fatto di paure, ricordi dolorosi e ferite che il tempo da solo non
basta a guarire.
Accoglierli davvero significa, prima di tutto, riconoscere questa parte silenziosa.
Dietro ogni storia di fuga c’è una forza fragile ma immensa: il desiderio di
ricominciare. È lì che, pian piano, può rinascere la dignità, come una riva che
finalmente accoglie dopo la tempesta.
Foto di Md. Zahid Hasan Joy su Unsplash