Nati piccoli piccoli: bambini prematuri

Francesca Di Bastiano

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ogni anno si verificano circa 15 milioni di nascite pretermine. Per quanto riguarda l’Italia, è circa il 7% del totale dei nati vivi a essere pretermine, ovvero circa 32.000 neonati pretermine all’anno (dati Cedap 2016). Di questi, solo una minima parte (l’1%) presenta un peso alla nascita sotto al chilo e mezzo. Per parto pretermine si intende un parto che avviene prima della  37° settimana di gravidanza in seguito al quale il neonato deve completare il suo percorso di crescita al di fuori del grembo materno e molto frequentemente all’interno di un’incubatrice, in reparti specializzati quali la terapia intensiva neonatale (TIN). La gravità del parto pretermine dipende dall’età gestazionale: tanto più è bassa, tanto più ci sono problemi per il bambino. In particolare, i bambini, tra le trentaquattro e le trentasette settimane vengono classificati come lievemente prematuri, mentre i neonati sotto le trentadue settimane vengono considerati gravemente prematuri e sono coloro che purtroppo necessitano maggiormente di cure intensive.

La nascita pretermine rappresenta un evento traumatico non solo per il bambino che si trova a dover completare il suo sviluppo all’esterno del grembo materno ma anche per i genitori che vedono interrotto in maniera improvvisa il tempo dedicato alla gestazione, non solo fisica ma anche psichica, un tempo necessario per fare spazio in maniera graduale all’accoglienza di un neonato e delle trasformazioni a livello familiare che questo comporta. La nascita pretermine inoltre mette i genitori di fronte a sentimenti e emozioni spesso difficili da accettare: il senso di confusione e smarrimento, la paura  per la sopravvivenza del proprio bambino ma anche di senso di colpa, per le madri,  ad esempio, dovuto al pensiero di aver fatto qualcosa di sbagliato e non essere state in grado di portare a termine la gravidanza. Ma anche la colpa di non accettare il bambino così come si presenta perché spesso non corrisponde al bambino immaginato. Il bambino reale è un bambino fragile, spesso poco gradevole nell’aspetto, è un bambino di cui non ci si può prendere subito cura. La separazione forzata e quella distanza fisica imposta fin dalla nascita si accompagnano spesso a una distanza emotiva che fa crescere sempre di più sentimenti quali la paura di non riuscire a creare un legame, un attaccamento e un’identificazione genitoriale. Questa distanza porta i genitori a vivere una sensazione di inadeguatezza e di impotenza, accresciute spesso dalla inevitabile necessità di delega all’equipe sanitaria, medici e infermieri che in quel momento sono gli unici che si possono prendere cura del neonato, necessità che si accompagna a sentimenti ambivalenti di profonda fiducia e dipendenza da una parte ma anche invida e rabbia, facendo aumentare il senso di frustrazione e la sensazione di essere poco utili o addirittura superflui per la crescita del proprio bambino.

Un altro elemento importante è quello del tempo. Il tempo in cui il bambino rimane in TIN dipende certamente dalla precocità della nascita e dalle condizioni cliniche. In assenza di complicanze mediche il tempo necessario è quello in cui il bambino raggiunge un peso ottimale, è in grado di respirare da solo e di essere indipendente nell’alimentazione, capacità che normalmente si sviluppano all’interno dell’utero.

In questa dimensione di incertezza e precarietà il tempo diventa un aspetto difficile da gestire e spesso subisce un’alterazione nella sua percezione; è un tempo anticipato, un tempo precoce e non maturo in cui tanto non ha avuto il tempo di maturare non solo il bambino. Non ha avuto tempo di maturare lo spazio emotivo per accogliere, così come quello di abbandonare il bambino immaginato per lasciare spazio al bambino reale. Questo è il tempo in cui prematuramente e bruscamente si interrompe lo sviluppo di quell’insieme di fantasie, aspettative, speranze e rappresentazioni che aveva iniziato a prendere forma nelle menti dei genitori.

È però anche un tempo sospeso e dilatato, in cui sembra che non succeda nulla e che si desidera passi in fretta, desiderio che però deve scontrarsi con la necessità di imparare a darsi degli obiettivi intermedi a brevissimo termine, spesso giornalieri o a volte nell’ordine delle ore, a vivere nel momento presente senza poter dare troppo spazio a una dimensione progettuale e immaginativa. Sembra un tempo sprecato in cui invece si può imparare a dare un valore al tempo presente.  È un tempo lento che vede il genitore appropriarsi del proprio ruolo di care giver piano piano, con una sempre crescente sintonizzazione emotiva man mano che i miglioramenti del neonato sono maggiormente visibili e lo stesso acquisisce maggiori competenze neurocognitive. È un tempo che disorienta  in cui l’età cronologica del bambino non corrisponde all’età evolutiva e questa differenza richiede uno sguardo e un ascolto ancora più attenti rispetto ai tempi e ai bisogni di ciascun bambino.

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