Autori Antonio Alcaro e Jaak Panksepp
Le radici affettive ed immaginative del Sè. Un’indagine neuroetologica sulle origini della soggettività.
Antonio Alcaro; antonioalcaro@yahoo.it Santa Lucia Foundation, European Centre for Brain Research (CERC), Associazione Italiana Gestalt Analitica (A.I.G.A.), Via Padre Semeria, 33, 00154 – Roma,
Jaak Panksepp; Department of Integrative Physiology and Neuroscience, College of Veterinary Medicine, Washington State University, Pullman, WA 99164-6520, USA. jpanksepp@vetmed.wsu.edu.
Introduzione
Il concetto di Sé è stato spesso utilizzato in psicologia in modo vago, a volte confuso, e senza darne una definizione esplicita. Tutto ciò rende particolarmente difficile procedere con il rigore necessario ad un approccio scientifico sul tema. Tuttavia, nonostante le numerose differenze tra gli autori, possiamo dire che il termine “Sé” sia stato generalmente usato secondo due accezioni, una soggettiva e l’altra oggettiva. La prima deriva dalla filosofia empirista e dalla psicologia di William James e si riferisce ad una esperienza o rappresentazione di sé che presuppone una certa qual forma di coscienza. La seconda, invece, ha a che fare con un aspetto oggettivo, o sostanziale, in quanto al Sé viene attribuito il ruolo di struttura psichica fondamentale, che precede la formazione dell’Io, o il suo sviluppo definitivo, come in Heinz Kohut, o che include l’Io come sua componente particolare, come in Carl Gustav Jung.
In linea con la prospettiva neurofilosofica di Georg Northoff [2004], in questo capitolo privilegeremo il primo significato, quello soggettivo, in quanto esso si presta ad una definizione empirica e può essere quindi indagato scientificamente. Tuttavia, crediamo che le due accezioni non possano essere separate in modo netto, in quanto l’esperienza soggettiva di sé è inscindibile da alcune condizioni strutturali che la rendono possibile e che sono legate ad una particolare architettura anatomo- funzionale del cervello.
Prima di addentrarci nel vivo delle nostre argomentazioni, vorremo fare una premessa. Nel primo capitolo di questo volume, Georg Northoff identifica nel Sé fenomenologico minimale l’unità di base e per molti versi primaria del Sé. Esso viene definito come un senso implicito di sé che emerge spontaneamente e precede ogni forma di pensiero o riflessione esplicita4. Potremmo dire che il Sé fenomenologico minimale è un Sé pre-cartesiano, che sa di esistere ancor prima di sapere di pensare. Le recenti indagini sperimentali condotte sul cervello degli uomini e degli animali indicano che il Sé fenomenologico minimale sia radicato all’interno di attività neurali generate in un complesso di strutture sottocorticali e corticali mediali [Northoff e Panksepp 2008; Pankseppe Northoff 2009]. Tuttavia, non sappiamo ancora bene cosa avvenga a livello di tali aree che possa essere legato al senso implicito del proprio essere nell’esperienza.
In questo capitolo, sottoporremo il Sé fenomenologico minimale ad una analisi particolareggiata in quanto ci sembra che esso sia composto da funzioni differenti, anche se legate fra loro. In primo luogo, esso è espressione della forza e dell’intensità dell’affetto che ci orienta e ci muove nel mondo e, in quanto tale, dipende dall’attivazione di particolari disposizioni emozionali. Per esempio, il nostro senso di sé è più vivo e presente quando incontriamo la persona di cui siamo innamorati rispetto a quando siamo impegnati in relazioni più neutre. Oppure, quando stiamo litigando con qualcuno ed avvertiamo, attraverso la rabbia, la nostra posizione conflittuale rispetto al nostro avversario5.
In secondo luogo, il senso di sé dipende dalla presenza di rappresentazioni immaginative che costituiscono un contenitore psichico degli affetti. In assenza di immagini adeguate, infatti, siamo agiti dall’emozione in modo piuttosto violento e la coscienza è proiettata nel mondo esterno, senza alcuna possibilità di riflettere su chi siamo e su cosa stiamo facendo.
In terzo luogo, il senso di sé dipende dallo stabilirsi di un senso di continuità nella successione delle esperienze affettive ed immaginative, a partire dall’individuazione di un centro comune. In assenza di questo tipo di radicamento, che avviene ad un livello implicito e che precede qualsiasi tipo di pensiero, le immagini psichiche e gli affetti non vengono riconosciute come proprie, come nel caso dei deliri e delle allucinazioni degli schizofrenici che si sentono invasi da presenze o forze aliene.
In questo capitolo, tenteremo di dimostrare che tali funzioni costituiscono tre diversi livelli del Sé, dotati di differente origine evolutiva e differenti substrati neuroanatomici: il Sé affettivo, il Sé immaginativo ed il Sé individuale.
La comprensione del livello affettivo e di quello immaginativo è fondamentale per giungere al livello individuale, che è invece oggi generalmente considerato senza dare la dovuta rilevanza ai primi due. Questa carenza di attenzione determina uno sbilanciamento nel giudizio degli psicologi e dei neuroscienziati, che spesso considerano il Sé una funzione esclusivamente personale che va formandosi nel corso dello sviluppo, in particolare durante la relazione di attaccamento. Secondo noi, invece, soltanto il Sé individuale si colloca quasi interamente nella dimensione neuroplastica dello sviluppo personale, mentre i primi due hanno un’origine prevalentemente istintuale, transpersonale ed archetipica. Pertanto, in questo capitolo, ci concentreremo esclusivamente sui primi due di questi livelli, che sono i più arcaici, e li esploreremo utilizzando una prospettiva neuroetologica, basata sulla comparazione tra uomo ed animali.
Il Sé affettivo
Il Sé affettivo fa la sua comparsa molto presto nel corso dell’evoluzione naturale ed è legato alla generazione spontanea di stati emozionali pre-rappresentazionali, che cioè non contemplano alcuna immagine di oggetti, luoghi e situazioni. Gli stati del Sé affettivo costituiscono la condizione di base della coscienza e rendono possibile lo sviluppo di qualsiasi tipo di rappresentazione, orientandoci aprioristicamente lungo determinate direzioni di senso.
In questa prima parte del capitolo, cercheremo di descrivere le fondamenta neurobiologiche del Sé affettivo, utilizzando una grande quantità di dati provenienti dagli studi sugli animali. In effetti, le aree cerebrali responsabili di questa prima dimensione del Sé sono molto simili negli uomini e negli animali (perlomeno nei mammiferi), e sono già strutturate in modo abbastanza stabile al momento della nascita. Esse costituiscono il retroterra istintuale del Sé.
I Sistemi Emozionali di base e la protocoscienza affettiva
Nel corso del secolo scorso, molti autori si sono interessati allo studio scientifico dei comportamenti emozionali, che, a partire dalle intuizioni di Darwin [2012], sono stati considerati parte del repertorio istintivo dell’uomo e degli animali [Plutchick 1980; tr. it. 1990]. Gli esperimenti di elettrostimolazione intracranica6 hanno consentito di individuare i circuiti cerebrali impegnati nella generazione ed organizzazione dei comportamenti emozionali di base. Tali circuiti, chiamati Sistemi Operativi Emozionali [Panksepp 1998], funzionano come i dispositivi di liberazione innati ipotizzati dagli etologi e in quanto la loro stimolazione produce una serie di risposte somatiche e viscerali che costituiscono il repertorio stereotipato caratteristico di ciascuna emozione. Ad esempio, i centri della rabbia attivano il sistema nervoso simpatico, che produce un aumento del battito cardiaco, della frequenza respiratoria e dell’irrorazione sanguigna ai muscoli, mentre al tempo stesso attiva una sequenza di movimenti muscolari che spesso si cristallizzano in posture ed atteggiamenti caratteristici (come digrignare i denti, stringere i pugni, tirare in fuori il petto, ecc.). Sebbene ogni emozione di base sia composta da un insieme di risposte predeterminate, i Sistemi Operativi Emozionali funzionano come centrali operative che coordinano in modo flessibile l’insieme delle risposte specifiche, anche sulla base di una costante elaborazione delle informazioni in arrivo. Tale flessibilità serve a garantire l’adattabilità in condizioni ambientali incerte e dall’esito imprevedibile. Allo stato attuale, viene riconosciuta l’esistenza di sette Sistemi Emozionali: il Desiderio/Ricerca, la Rabbia, la Paura, il Panico/Angoscia da Separazione, l’Amore/Accudimento, la Gioia/Gioco e la Bramosia Sessuale [Panksepp 2005]. Le prove in nostro possesso indicano che tali sistemi Emozionali sono presenti in diverse specie animali, in primo luogo nei mammiferi, ma molto probabilmente anche negli uccelli e addirittura nei rettili, che dispongono di almeno quattro Sistemi Operativi Emozionali: la Rabbia, la Paura, il Desiderio/Ricerca e la Bramosia Sessuale7 [Panksepp, 1998].
Dato il loro carattere flessibile ed il loro orientamento verso particolari scopi, le emozioni di base possono essere considerate come vere e proprie disposizioni intenzionali. Il Desiderio/Ricerca spinge l’organismo ad esplorare l’ambiente e cercare ciò di cui ha bisogno. La Paura spinge l’organismo all’evitamento di un pericolo. La Rabbia all’aggressione e distruzione di una fonte di pericolo o frustrazione. Il Panico/Angoscia da Separazione agisce per segnalare il bisogno di una figura che protegga ed accudisca. L’Amore/Accudimento spinge a fornire protezione e cure. La Bramosia Sessuale spinge all’accoppiamento ed alla riproduzione. La Gioia/Gioco spinge all’interazione tra conspecifici, specialmente nei piccoli. L’attivazione dei Sistemi Operativi Emozionali non si ripercuote solo a livello del comportamento, ma sembra influenzare profondamente lo stato soggettivo, determinando l’emergere di caratteristici affetti, sia nell’uomo che negli animali. E’ stato infatti dimostrato che l’elettrostimolazione dei Sistemi Emozionali produce sempre degli effetti gratificanti o avversivi, a seconda del tipo di emozione che viene attivata. Il Desiderio/Ricerca, la Gioia/Gioco, la Bramosia Sessuale e l’Amore/Accudimento sono stati emotivi positivi, e l’animale cerca attivamente di riprodurre le condizioni che hanno portato all’insorgenza di una di queste emozioni. Al contrario, la Paura, la Rabbia ed il Panico/Angoscia da Separazione si accompagnano a stati emotivi negativi e gli animali cercano sempre di evitare le condizioni ambientali associate a tali emozioni [Panksepp 2010].
Anche nell’uomo, l’elettrostimolazione dei Sistemi Operativi Emozionali è associata alla comparsa di stati affettivi positivi o negativi [Heath 1996]. Ad esempio, un paziente stimolato nella zona dorsale dell’area grigia periacqueduttale, dove risiedono i centri della paura, della rabbia e del panico, esclamava di essere <<spaventato a morte>>8.
La stretta associazione tra comportamenti emozionali e stati affettivi indica che l’attivazione dei Sistemi Emozionali influenza una forma embrionale di coscienza, che noi definiamo protocoscienza affettiva9 [Solms e Panksepp 2012]. Si tratta di una coscienza centrata su particolari stati emozionali che manca di una esplicita rappresentazione oggettuale, se non per quanto riguarda alcune forme estremamente elementari di percezione. E’ dunque anzitutto l’espressione cosciente di una disposizione affettiva, e costituisce la condizione di partenza per qualsiasi immagine del mondo. In alcuni precedenti saggi, l’abbiamo definita un tipo di coscienza “nomotetica” (dal greco nòmos = legge, e tithénai = porre, stabilire), cioè che pone le fondamenta generali, distinguendola dalla coscienza “idiografica” (dal greco idìos = particolare e gràphein = scrivere) che invece assume su di sé degli oggetti o delle rappresentazioni specifiche [Panksepp 2012]. Anticipando qualsiasi forma di rappresentazione, la protocoscienza affettiva prescinde anche da qualsiasi distinzione tra un soggetto ed un oggetto, presentandosi piuttosto come uno stato di coscienza diffuso, espanso. Tuttavia, come vedremo qui di seguito, questo stato di coscienza diffusa può essere limitato e contenuto da un senso implicito di identità e differenziazione che si stabilisce a partire dal rapporto tra la percezione del proprio corpo e quella dell’ambiente esterno.
Oltre che dalle disposizioni emozionali di base, gli stati protocoscienti del Sé affettivo sono alimentati anche dalla percezione enterocettiva, diretta verso l’interno del corpo, e da quella esterocettiva, diretta verso il mondo esterno. La percezione e la regolazione degli stati enterocettivi, che per Damasio costituiscono le funzioni principali del proto-Sé o Sé corporeo [Damasio 2010; tr. it. 2012], si accompagnano a sensazioni di piacere o dispiacere, a seconda di quanto ci si trovi in uno stato di rilassamento o di tensione viscerale o a seconda di quanto si è vicini o lontani da una condizione di omeostasi interna. Ad esempio, quando l’organismo si trova in una condizione di deficit energetico, i centri ipotalamici della fame si attivano e questo genera una serie di reazioni fisiologiche interne che, tutte insieme, determinano l’emergere di stati affettivi caratterizzati da dispiacere e tensione. Al contrario, dopo un lauto banchetto, si attivano i centri della sazietà e questo si associa ad un generale rilassamento delle tensioni interne. Come giustamente evidenziato da Damasio, è molto probabile che il senso implicito di Sé dipenda dagli stati affettivi associati all’enterocezione e dalla relazione
Il Sé affettivo è legato anche ad una forma embrionale di percezione esterocettiva, coinvolta nell’elaborazione di caratteristiche sensoriali molto rudimentali, da cui dipenderà poi lo sviluppo di capacità percettive ed immaginative più sofisticate. Le sensazioni esterocettive primordiali hanno una valenza intrinsecamente affettiva, come nel caso del piacere innato generato da un gusto dolce e dal dispiacere causato da un gusto amaro. Bisogna inoltre sottolineare che le capacità percettive del Sé affettivo sono sempre legate all’attivazione di sequenze motorie di esplorazione attiva, e, dunque, al Sistema Emozionale del Desiderio/Ricerca, senza cui non sarebbe possibile alcun tipo di percezione10.
Per concludere, quindi, nel nostro modello la protocoscienza affettiva (emozionale, enterocettiva ed esterocettiva) costituisce la base archetipica di ogni forma di coscienza o esperienza della realtà, definendo alcune tonalità affettive primordiali dalla cui combinazione e differenziazione derivano tutte le tonalità affettive del Sé. Riteniamo pertanto che l’affettività costituisca il centro gravitazionale della coscienza ed il primo livello evolutivo del Sè, mentre il pensiero, soprattutto di natura linguistica, pertiene ad acquisizioni più recenti e superficiali della nostra storia filogenetica.
2.2 Le basi cerebrali del Sé affettivo
Come mostrano gli esperimenti di elettrostimolazione [Panksepp 1998; Panksepp e Biven 2012], i Sistemi Emozionali di base sono localizzati prevalentemente in una zona profonda del cervello, molto antica dal punto di vista filogenetico, che comprende alcune aree del tronco cerebrale (come l’area grigia periacqueduttale o l’area tegmentale ventrale), molti nuclei dell’ipotalamo e vaste regioni del proencefalo basale (come lo striato ventrale e l’amigdala estesa)11. Anche gli studi di neuroimmagine indicano che l’attivazione metabolica di tali aree cerebrali si accompagna all’emergere di emozioni di base [Damasio et al. 2000; Liotti e Panksepp 2004; Northoff et al. 2009]. In virtù della loro posizione anatomica, nel corso di questo capitolo ci riferiremo a questo complesso di strutture come Strutture SottoCorticali Mediali (SSCM).
Anche gli stati affettivi enterocettivi ed esterocettivi dipendono dall’attività delle SSCM. In particolare, la percezione enterocettiva e la regolazione omeostatico- viscerale sono legate all’attività dell’ipotalamo, del nucleo del tratto solitario e del nucleo parabrachiale [Damasio 2010; tr. it. 2012]. I collicoli superiore ed inferiore, invece, sono in grado di elaborare alcuni suoni e forme visuali rudimentali, che hanno una valenza intrinsecamente affettiva [Merker 2007], mentre altri centri sottocorticali svolgono la medesima funzione per quanto riguarda il tatto, il gusto e l’olfatto [Panksepp e Biven 2012].
L’assoluta centralità delle SSCM per l’emergere di una forma primordiale di coscienza è testimoniato dagli studi con i bambini anencefalici, cioè nati completamente privi di corteccia cerebrale. Nonostante la mancanza della corteccia e di ampie regioni del sistema limbico tali bambini possiedono una emotività ed una capacità di interazione empatica rudimentale. Possono ridere o piangere, e mostrano una certa preferenza o avversione per determinati tipi di stimoli [Merker 2007]. D’altronde, anche negli animali, la rimozione della corteccia cerebrale e delle aree limbiche superiori produce effetti drammatici sull’apprendimeto, ma non sulle capacità di interagire spontaneamente nei vari contesti ambientali [Solms e Panksepp 2012].
Mentre lesioni di vaste aree della corteccia e del sistema limbico superiore possono compromettere alcune funzioni specifiche, ma mantengono integro il campo della coscienza, lesioni delle SSCM producono il coma cerebrale e la cessazione di qualsiasi attività psichica ed intenzionale [Watt e Pincus 2004; Merker 2007; Panksepp e Biven 2012]. Inoltre, i deficit causati dalle lesioni sono tanto più cospicui quanto più in basso è localizzata la lesione. Gli effetti più gravi si hanno con la lesione dell’area grigia periacquesuttale (PAG), che può essere considerato il centro di convergenza ed integrazione di tutti i Sistemi Operativi Emozionali, specialmente relativamente alle emozioni negative [Panksepp 1998]. Queste prove sperimentali mostrano che la protocoscienza affettiva elaborata nelle SSCM è la condizione di partenza per ogni tipo di esperienza, o rappresentazione mentale soggettiva.
La nostra concezione del Sé affettivo e dei suoi substrati neurobiologici differisce abbastanza radicalmente da quella di Antonio Damasio, anche se condivide con essa alcuni punti importanti. In linea con la tradizione di William James, Damasio considera il proto-Sé come essenzialmente legato alla rappresentazione degli stati interni del corpo [Damasio 2010; tr. it. 2012], cioè di ciò che prima abbiamo definito come enterocezione. Secondo la teoria di James-Lange, infatti, anche i sentimenti emozionali non sono altro che la rappresentazione mentale integrata dei cambiamenti corporei, soprattutto viscerali, che sono stati innescati in modo automatico dai Sistemi Operativi Emozionali. Le emozioni sono il “sentimento di ciò che accade nel corpo” [Damasio 1999; tr. it. 2000] e la coscienza affettiva è il risultato di modelli o schemi neuronali dello stato interno dell’organismo. In fondo, la concezione di Damasio continua ad essere legata ad un’ottica puramente cognitivistica, in quanto riduce il sentimento ad uno schema cognitivo, o mappa, o rappresentazione.
Al contrario, noi consideriamo gli affetti come delle disposizioni intenzionali che proiettano l’organismo fuori dal proprio corpo, in una dimensione relazionale o di confine tra l’interno e l’esterno. Per noi le emozioni non sono sentimenti di ciò che accade all’interno dell’organismo (the feelings of what happens), ma piuttosto sentimenti di ciò che sta accadendo o che potrebbe succedere all’interno di un campo che include l’organismo ed il suo ambiente. Le emozioni hanno innanzitutto una funzione proiettiva ed anticipatoria, ed orientano il comportamento dell’organismo all’interno di particolari direzioni adattative che si sono conservate nel corso dell’evoluzione naturale. In tal senso, l’affetto è anzitutto una direzione di senso, anzi è la direzione di senso primaria della coscienza.
Il nostro modo di guardare le emozioni e gli affetti implica ovviamente anche un diverso orientamento nei confronti dei processi cerebrali. Pur interessandosi delle medesime aree sottocorticali del cervello, Damasio osserva soprattutto la capacità delle SSCM di ricevere informazioni dall’interno del corpo e di integrare tali informazioni in particolari schemi di rappresentazioni o mappe. Egli osserva dunque anzitutto l’hardwere, cioè il sistema delle connessioni della rete neuronale. Al contrario, noi non siamo solo interessati alla struttura, ma soprattutto ai processi dinamici che avvengono al suo interno.
Partendo dallo studio dei sistemi dinamici non lineari [Llinas 2001; Brown 2002; Freeman 2001; tr. it. 2003; Lewis 2005], noi crediamo che gli stati affettivi siano legati all’emergere di particolari patterns neurodinamici, che si sviluppano nelle SSCM e diffondono poi in tutto il cervello, in virtù della fitta rete di proiezioni che collegano le SSCM ad altre aree neuronali12 e all’intero organismo. Questi patterns neurodinamici funzionano come degli attrattori che legano l’attività neuronale vincolando la sua evoluzione all’interno di determinati “bacini di attrazione”. Essi agiscono come dei demoni interni che non soltanto muovono l’organismo, ma al contempo vanno a costituire il campo della coscienza, condizionando tutto ciò che può essere percepito, immaginato o pensato. Essi somigliano a ciò che Jung ha definito col nome di archetipi e Kant come le categorie a priori del pensiero. Crediamo inoltre che tali patterns neurodinamici siano collegati a specifiche oscillazioni di campo, cioè alla tendenza delle reti neuronali ad oscillare a determinate frequenze d’onda. Ad esempio, per quanto riguarda l’emozione del Desiderio/Ricerca, alcune iniziali prove sperimentali indicano che tale disposizione emozionale possa essere legata all’emergere di ritmi theta nell’ippocampo [Vertes e Kocsis 1997] e di onde gamma nello striato ventrale e nella corteccia prefrontale [Alcaro e Panksepp, 2011]. Dal nostro punto di vista, questi ritmi favoriscono l’emergere di sequenze neurodinamiche legate all’esplorazione e alla ricerca attiva nell’ambiente [Alcaro et al. 2007; Alcaro e Panksepp 2011], e sono il veicolo biologico di una disposizione intenzionale che si manifesta tanto a livello del comportamento che dell’attività mentale cosciente.
Per concludere, quindi, è possibile che gli stati affettivi di base siano legati ad alcune sequenze di attività neuronale, contenuti in determinati pacchetti di onde, che emergono all’interno delle SSCM e diffondono poi in tutto il cervello, influenzandone l’attività globale. Noi crediamo che nelle sequenze di attività neuronale siano codificati alcuni comportamenti o atteggiamenti archetipici che sono caratteristici di una particolare disposizione emozionale, e che esprimono una particolare direzione di senso nella relazione organismo-ambiente. Pertanto, lo stato affettivo protocosciente sarebbe la manifestazione soggettiva dell’influenza esercitata dal pattern neurodinamico sull’attività di tutto il cervello e, più in generale, sul senso della relazione tra organismo e ambiente.
Dalla psiche oggettiva alla psiche soggettiva: l’origine del Sè
La prospettiva neuroetologia e neurodinamica che abbiamo presentato entra in conflitto con la visione dominante nel campo delle neuroscienze. Dagli anni ’50 fino ad oggi, infatti, le ricerche sul cervello sono state dominate da una prospettiva rigidamente cognitivo-comportamentista. Basandosi esclusivamente su dati ottenuti in contesti artificiali di laboratorio ed orientati all’analisi degli effetti dell’apprendimento, i neuroscienziati hanno considerato il cervello come una macchina per l’elaborazione di informazioni provenienti dal mondo esterno. Gli etologi, invece, abituati ad osservare gli animali nel loro ambiente naturale, hanno sempre sottolineato come ogni organismo sia spontaneamente attivo nel suo ambiente naturale grazie all’azione di dispositivi innati che guidano il comportamento lungo particolari direzioni adattative [Tinbergen 1951; tr. it. 1994; Lorenz 1965; tr. it. 1965]. L’attenzione alle componenti istintuali e dinamiche del comportamento avvicina la prospettiva etologica alla psicoanalisi, e costituisce un importante punto di riferimento per uno studio della soggettività intesa come espressione di tendenze inscritte nella struttura biologica delle specie.
D’altronde, l’importanza dell’approccio etologico per la psicologia fu sostenuto con forza da John Bowlby, il quale riuscì a dimostrare come la psiche umana fosse profondamente condizionata dall’azione di modelli innati di attaccamento e dal modo con cui tali modelli trovassero o meno una corrispondenza nell’esperienza individuale [Bowlby 1969; tr. it. 1999]. Tuttavia, già nella psicologia analitica sviluppata da Carl Gustav Jung troviamo una proposta innovativa e teoricamente feconda di stabilire una connessione tra gli aspetti più profondi ed arcaici della psiche inconscia ed i comportamenti istintuali.
Nel tentativo di definire come la mente individuale sia fondata su categorie archetipiche collettive, Jung sottolinea più volte la stretta analogia esistente tra la nozione di archetipo e quella di istinto13 [Jung, 1976; tr. it. 1997]. Egli scrive che l’archetipo indica << una maniera ereditaria di funzionare che corrisponde al modo con cui un pulcino esce dall’uovo, l’uccello costruisce il nido, […]. In altre parole, è un “pattern di comportamento”. Questo aspetto dell’archetipo, quello puramente biologico, è l’oggetto appropriato della psicologia scientifica>> [Jung 1999, 212]. Jung ritiene che la struttura degli archetipi sia tramandata ereditariamente attraverso particolari configurazioni antomo-funzionali del cervello. Come scrive Antony Stevens [2003], nel suo prezioso contributo dal titolo Archetype revisited, gli archetipi sono <<centri neuropsichici responsabili di coordinare il repertorio comportamentale e psicologico della nostra specie in risposta a varie condizioni ambientali>> e sono <<direttamente paragonabili ai “meccanismi di liberazione innati” responsabili di ciò che Lorenz chiama “patterns di comportamento specie-specifico” o di ciò che Bowlby chiama “sistemi comportamentali diretti allo scopo”>> [Stevens 2003, 17].
Purtroppo, il rifiuto degli etologi di studiare il comportamento animale in laboratorio impedì di indagare scientificamente le basi cerebrali dei comportamenti istintivi. I limiti della prospettiva etologica sono stati però recentemente superati grazie allo sviluppo delle Neuroscienze dell’Affettività [Panksepp 1998] ed al proliferare di ricerche sperimentali che non soltanto hanno indagato le basi cerebrali dei comportamenti istintivi, ma hanno anche dimostrato come la coscienza soggettiva sia radicata proprio all’interno della dimensione istintuale.
Bisogna sottolineare che, prese esclusivamente dal versante oggettivo, le nozioni di istinto e di archetipo non implicano affatto il coinvolgimento di una dimensione psicologica soggettiva. Entrambi descrivono processi che agiscono in modo meccanico ed inconscio, condizionando rispettivamente il corso dell’azione o del pensiero. Tuttavia, come dimostrato dagli studi citati nei paragrafi precedenti, esiste un ponte capace di connettere la psiche oggettiva a quella soggettiva e, dunque, di favorire il passaggio dall’inconscio alla coscienza. Le recenti indagini neuroetologiche mostrano che l’attivazione di particolari istinti emozionali ha effetti anche sull’apprendimento, in quanto essi modificano la percezione soggettiva che l’organismo ha del proprio ambiente. Pur facendo parte della struttura istintuale delle specie, e dunque attingendo ad una dimensione transpersonale, gli affetti sono esperienze prototipiche che creano le condizioni per l’emergere di un campo psicologico individuale, costituendo lo sfondo da cui si sviluppano le varie rappresentazioni psichiche personali [Panksepp 2011a; Solms e Panksepp 2012]. Pertanto, la dimensione affettiva è il punto di contatto tra la psiche oggettiva e quella soggettiva, e costituisce il primo livello del Sé inteso sia come senso implicito della propria esistenza soggettiva e sia come centro di organizzazione e strutturazione della vita psichica.
Il Sé immaginativo
In questa seconda parte, analizzeremo il secondo stadio evolutivo del Sé, relativo alla capacità degli organismi viventi di produrre immagini e rappresentazioni coscienti. Tali immagini costituiscono un notevole arricchimento per la vita psichica soggettiva, che fino ad allora era dominata quasi esclusivamente da stati affettivi privi di oggetto, estremamente intensi ma quasi completamente ciechi.
L’immaginazione nella prospettiva neuroetologica
Analizzando l’architettura neurofunzionale del Sé affettivo, abbiamo scoperto che la prima forma di coscienza soggettiva, generata al suo interno, è pressochè incapace di rappresentazioni mentali. Piuttosto, essa è animata da stati affettivi pre- rappresentazionali, che proiettano l’organismo in uno spazio esterno, spingendolo ad agire in un determinato senso [Panksepp 2011a]. Pertanto, la soggettività animale non può evitare di essere continuamente a contatto con il mondo fisico, in quanto le disposizioni emozionali, soggettivamente esperite, possono trovare adeguata risoluzione solo nel contatto con stimoli fisicamente presenti nell’ambiente esterno14. Da questo punto di vista, non possiamo ancora parlare di una vera e propria soggettività, ma piuttosto di una sensibilità affettiva diffusa, priva di un riferimento ad un soggetto che ne fa esperienza.
La dipendenza assoluta dall’ambiente esterno è testimoniata dal fatto che, quando non sono impegnati in alcuna azione, la maggior parte degli animali sembra spegnersi ed abbandonarsi ad uno stato di inattività. In tali casi, si assiste ad una riduzione complessiva del metabolismo corporeo ed, in particolare, di quello cerebrale. Quando sono più duraturi, questi cicli di inattività possono essere associati al sonno o ad una sorta di ritiro letargico che si compie in determinati periodi dell’anno, e sono funzionali al mantenimento o al risparmio di energia in momenti improduttivi e/o pericolosi per la sopravvivenza dell’organismo [Berger e Phillips 1995].
Nel corso dell’evoluzione naturale, gli animali acquisiscono capacità sempre più sofisticate e particolareggiate di percezione. Inoltre, la crescita del cervello consente di elaborare ed immagazzinare quantità di informazioni via via maggiori. In particolare, lo sviluppo di aree come l’amigdala, l’ippocampo ed i gangli della base consentono nuove e sofisticate forme di apprendimento, sia per quanto concerne l’associazione tra stimoli o contesti ambientali, e sia per quanto concerne l’acquisizione di nuove sequenze motorie [Panksepp 2011a].
Tuttavia, i centri nervosi percettivi e mnestici si collocano all’interno di aree nervose laterali e comunque diverse dalle SSCM15, dove ha origine la protocoscienza affettiva. Pertanto, le rappresentazioni percettive agiscano inizialmente in modo quasi esclusivamente inconscio, e la stessa cosa si verifica anche per le informazioni che sono state immagazzinate nella memoria, attraverso le varie forme di condizionamento [Panksepp 2011a]. Pur conferendo un maggiore grado di plasticità comportamentale, dunque, l’evoluzione di processi percettivi e mnestici non consente di per sé una espansione della soggettività cosciente, che resta agganciata alle aree del Sé affettivo.
Ad un certo punto della storia evolutiva, però, si verifica un salto qualitativo di notevole importanza, che si compie parallelamente allo sviluppo della capacità di autoregolare la propria temperatura corporea (omeotermia). Diversamente da tutte le altre forme di vita animale, infatti, gli uccelli ed i mammiferi mostrano, durante periodi di riposo, un’attività cerebrale che può raggiungere i livelli tipici della veglia attiva, arrivando addirittura a superarli in determinate regioni cerebrali. Questo fenomeno si osserva in maniera molto evidente in una specifica fase del sonno, che è stata chiamata fase REM, e che è in genere associata alla capacità di sognare [Hobson 2009]. Inoltre, lo stesso fenomeno può riscontrarsi anche in condizioni di veglia inattiva [Mantini et al. 2011; Lu et al. 2012].
Gli studi sull’uomo indicano che l’intensa attività cerebrale durante la fase REM e durante la veglia inattiva è associata alla produzione di immagini e di pensieri coscienti, attraverso cui si costruiscono scenari virtuali utilizzando le informazioni accumulate nel corso dell’esperienza passata [Schacter et al. 2012]. Noi crediamo che la stessa cosa possa valere anche per gli uccelli ed i mammiferi, che mostrano infatti delle capacità cognitive nuove, tipiche di chi utilizza l’immaginazione [Crystal 2012; Roberts 2012].
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, è molto probabile che l’iniziale capacità di produrre immagini coscienti non dipenda dall’attività dei sistemi percettivi orientati verso il mondo esterno, anche se può essere condizionata dai dati sensoriali che sono in corso di elaborazione o da quelli che sono stati immagazinati nella memoria. Al contrario, noi crediamo che le immagini primordiali del Sé costituiscano innanzitutto una elaborazione di esperienze affettive che va compiendosi quando l’organismo non è direttamente impegnato in una relazione attiva con il mondo esterno16. Mentre la percezione è, nei suoi stadi iniziali, una funzione quasi totalmente inconscia, l’immaginazione costituisce invece sin dall’inizio un’espansione del Sé affettivo e dei suoi stati protocoscienti, frutto della diretta relazione tra le SSCM ed un complesso di strutture corticali mediali (SCM) che mostrano una intensa attività a riposo (vedi più avanti). In virtù di tali connessioni neurofunzionali, noi definiamo Sé immaginativo quel prolungamento del Sé affettivo che ha acquisito la capacità di rappresentare, dando così origine ad uno spazio immaginale dove gli stati del Sé affettivo possono trovare una nuova forma espressiva.
I vantaggi dell’evoluzione di un Sé immaginativo hanno a che fare con il fatto che la creazione di uno spazio immaginale consente all’organismo di staccarsi dalle contingenze del suo presente immediato e di proiettarsi in una dimensione più estesa. L’immaginazione riproduce e combina le informazioni acquisite con una rapidità straordinaria, moltiplicando di infinite volte il potenziale creativo e trasformativo del singolo organismo. Attraverso la sperimentazione di scenari virtuali, l’individuo non è più condizionato meccanicamente dalle esperienze, ma diventa capace di elaborare soluzioni innovative che possono poi essere messe al vaglio di prova quando se ne presenti l’occasione concreta [Cai et al. 2009; Schacter et al. 2012].
Noi crediamo, inoltre, che l’utilità dell’immaginazione e del sogno non abbia solo a che fare con un adattamento nei confronti del mondo esterno, quanto anche con l’esigenza, propria di organismi molto complessi e plastici dal punto di vista cerebrale, di mantenere e riprogrammare continuamente la propria identità neuro-psichica (il proprio Sé appunto), man mano che si acquisiscono nuove esperienze ed informazioni dal mondo esterno. Un’ipotesi molto simile alla nostra è stata proposta da Jouvet [1991; 1998], secondo cui i sogni costituiscono una forma di programmazione neurogenetica, dove le esperienze vissute nel contatto con la realtà esterna vengono assimilate e riorganizzate a partire dalla propria identità psicobiologica.
Dal nostro punto di vista, l’affettività svolge un ruolo fondamentale nel processo di continua riprogrammazione ipotizzata da Jouvet. Infatti, mentre durante la veglia attiva le reazioni emozionali sono fortemente vincolate dalle condizioni ambientali, durante l’immaginazione ed il sogno, invece, le dinamiche affettive agiscono più liberamente in modo da condizionare il campo delle rappresentazioni. Si crea pertanto un rovesciamento, per cui l’impatto della realtà esterna sull’organismo viene ad essere coadiuvato da un movimento inverso, attraverso cui l’organismo riorganizza le esperienze a partire da un codice istintuale ed affettivo17.
Il substratum neurobiologico del Sé immaginativo
Non tutte le aree cerebrali mostrano una intensa attività a riposo. Nell’uomo, le aree dotate di questa caratteristica appartengono ad un complesso di strutture corticali mediali (SCM) che sono strettamente legate da un punto di vista anatomico e funzionale e che sono state definite una default mode network [Raichle et al. 2001; Raichle e Snyder 2007]. Anche i primati non umani ed i ratti sono dotati di connessioni neurofunzionali caratteristiche della default mode network, [Mantini et al. 2011; Lu et al. 2012]. E’ peraltro un fatto degno di nota che, tanto nell’uomo che negli animali, le SCM siano particolarmente attive durante la fase REM, a livelli addirittura superiori a quelli riscontrabili durante la veglia [Nir e Tononi 2010; Domhoff 2011].
Come descritto da Northoff in questo volume, una grande quantità di studi sperimentali hanno dimostrato che le CMS si attivano quando vengono elaborati degli stimoli che il soggetto riconosce come legati al Sé [Northoff et al. 2006], che kohutianamente potremmo definire come “oggetti-Sé” [Kohut 1971; tr. it. 1977]. Una questione davvero rilevante è che cosa accada all’interno delle CMS quando vengono presentati stimoli di questo tipo ed in che modo l’attività neurale all’interno di tali aree è implicata nel riconoscimento del loro profondo significato soggettivo. Secondo noi, l’attività nelle CMS facilita lo svolgersi di processi immaginativi grazie a cui, a partire da uno stimolo iniziale, viene elaborato un complesso di rappresentazioni che ruotano intorno al valore affettivo dello stimolo. Ad esempio, la foto della propria casa attiverà una serie di immagini relative alla famiglia ed alla vita domestica, tutte legate fra loro da uno stato affettivo dominante.
Alcuni ricercatori hanno indicato che l’attività nelle CMS, tanto quella di base quanto quella in risposta a stimoli, sia legata all’immaginazione e al sogno18 [Schacter et al. 2012; Agnati et al. 2013; Fox et al. 2013]. In continuità con tali ricerche, noi crediamo che la funzione immaginale delle SCM dipenda dal fatto che questo complesso di strutture nervose costituisca uno snodo fondamentale tra le SSCM, dove convergono i Sistemi Operativi Emozionali, e le aree corticali coinvolte nelle rappresentazioni percettive e senso-motorie. Infatti, le proiezioni ascendenti che dalle SSCM raggiungono le SCM [Northoff e Panksepp 2008; Panksepp e Northoff 2009] consentono agli stati del Sé affettivo di entrare all’interno di uno spazio immaginale, in quanto l’attivazione sottocorticale si espande dal basso verso l’alto e, passando dalle SCM, arriva a contaminare le aree percettive e senso-motorie secondarie. In questo modo, gli stati del Sé affettivo acquisiscono lo straordinario potere di evocare delle immagini complesse, sfruttando l’architettura neurofunzionale che si è andata formando durante l’esperienza con il mondo esterno. Così facendo, gli stati del Sé affettivo si vestono di immagini, diventando rappresentazioni del Sé immaginativo. In particolare, la porzione ventrale delle SCM19 [Northoff et al. 2006], ricca di proiezioni ascendenti da parte del Sistema Emozionale del Desiderio/Ricerca [Kaplan-Solms e Solms 2000; tr. it. 2002; Alcaro e Panksepp 2011], costituirebbe il sito principale in cui gli stati emozionali possano accedere alla dimensione immaginale. Probabilmente, infatti, a livello di aree come la corteccia orbitofrontale mediale, la corteccia prefrontale ventromesiale ed alcune porzioni della corteccia cingolata anteriore, la disposizione emozionale al Desiderio/Ricerca può esprimersi nella forma di una esplorazione per immagini. A conferma della nostra ipotesi, lesioni di queste aree causano la perdita della capacità di sognare e di immaginare [Solms 2000], nonché la perdita di energia psicologica e del senso del Sé [Damasio 1999; tr. it. 2000; Kaplan-Solms e Solms 2000; tr. it. 2002].
Sebbene fortemente vincolate dalle dinamiche emozionali, le immagini mentali acquisiscono un certo potere di regolazione sugli stati del Sé affettivo, attraverso l’influenza di proiezioni discendenti che dalle SCM raggiungono le SSCM [Northoff e Panksepp 2008; Panksepp e Northoff 2009]. Infatti, lo stato di attivazione neuro- psichica di base, particolarmente evidente in condizioni di inattività, può svolgere un ruolo di modulazione sui Sistemi Emozionali anche quando l’organismo sta attivamente interagendo con il suo ambiente fisico, consentendogli di guadagnare uno spazio di libertà rispetto agli automatismi delle sue reazioni emozionali20. Pertanto, noi crediamo che le immagini mentali favoriscono una regolazione inibitoria delle emozioni, che perdono parte della loro impulsività quando si esprimono attraverso immagini e pensieri. L’attività immaginativa può quindi diventare una forma di contenimento psicologico per gli stati del Sé affettivo, che non hanno più bisogno di essere immediatamente agiti, ma possono trovare una risoluzione proprio all’interno degli scenari immaginari.
In conclusione, secondo la nostra ipotesi neuroevoluzionista, il secondo livello del Sé, detto Sé immaginativo, è legato allo sviluppo di un complesso di strutture corticali mediali (SCM), che sono particolarmente attive durante la fase REM e durante la vegli inattiva. Mantenendo un continuo livello di attività a riposo, le SCM sarebbero impegnate nella continua produzione di immagini mentali coscienti (o potenzialmente tali), che possono più o meno riferirsi ad aspetti del mondo esterno, ma che in ogni caso sono fortemente legate agli stati pre-rappresentazionali del Sé affettivo, rispetto a cui costituiscono una sorta di cornice o contenitore immaginale.
Dal Sé archetipico al Sé individuale
La nostra ipotesi sul Sé immaginativo trova alcune importanti corrispondenze in tutte quelle correnti della psicologia dinamica che hanno dato importanza all’immaginazione ed al sogno, considerando tali funzioni non soltanto come residui di una mente primitiva o infantile [Freud, 1900; tr. it. 1989], ma come processi creativi e trasformativi che originano nel cuore stesso della personalità individuale. Ad esempio, Jung utilizzava l’immaginazione attiva come strumento terapeutico ed analizzava i sogni utilizzando il metodo dell’amplificazione che, anzicchè tradurre il codice delle immagini oniriche nel linguaggio razionale, favorisce piuttosto l’emergere di nuove immagini che si agganciano via via alle precedenti. Svincolata dall’esigenza di adattarsi al mondo esterno, l’immaginazione spontanea costituisce per Jung l’espressione più diretta del nucleo fondativo della soggettività, che ha una matrice anzitutto affettiva. Perciò, egli era convinto che lo sgorgare spontaneo delle immagini nella coscienza sia il miglior modo possibile per integrare le varie parti della personalità ed arrivare così ad un contatto più profondo e consapevole con l’inconscio [Jung 1992].
Anche alcuni psicoanalisti della scuola delle relazioni oggettuali hanno riconosciuto il ruolo fondamentale dell’immaginazione come strumento terapeutico, e, più in generale, come funzione fondativa e trasformativa della soggettività. Donald Winnicott, ad esempio, considerava il gioco spontaneo e creativo, intriso di componenti immaginative, come lo strumento fondamentale per la creazione di quello spazio transizionale attraverso cui il Sé si sviluppa ed evolve [Winnicott 1971; tr. it. 2005]. Wilfred Bion parlava invece di funzione alfa e di revèrie per indicare quelle particolari attitudini al pensiero immaginativo che rendono possibile elaborare e digerire il materiale psichico inconscio, assimilandolo all’interno di forme nuove o già esistenti ed utilizzandolo per favorire un cambiamento ed una maturazione della personalità [Bion 1962; tr. it. 2009].
Gli esempi potrebbero continuare sino ai più recenti sviluppi del pensiero clinico. Piuttosto che proseguire in tale direzione, però, preferiamo però sottolineare il rapporto tra il Sé immaginativo ed il Sé individuale, cioè il rapporto tra l’immaginazione e la capacità di pensare a ciò che si è immaginato come qualcosa che appartiene al proprio mondo soggettivo, dotato di stabilità, ma anche di limiti piuttosto precisi.
Come è noto, durante la fase acuta dei loro deliri, gli schizofrenici sono dotati di una fervida immaginazione, e credono alla verità oggettiva delle loro immagini. Questo avviene in quanto gli schizofrenici sono carenti di quel senso della propria identità individuale, che consente di riappropriarsi soggettivamente delle immagini prodotte. Difatti, gli stadi archetipici del Sé, affettivo ed immaginativo, sono privi di un senso di continuità e si compongono di stati dotati di vita autonoma ed indipendente. Janet aveva espresso quest’idea parlando dei “complessi autonomi della personalità”, e Jung era partito da tale concezione quando aveva teorizzato l’esistenza dei “complessi a tonalità affettiva” e degli “archetipi” [Jung 1976; tr. it. 1997]. Perché queste entità psichiche autonome possano integrarsi all’interno di una dimensione psichica unitaria e stabile c’è bisogno di un ulteriore passaggio evolutivo, che si realizza nella misura in cui gli stati archetipici del Sé vengono connessi ed organizzati a partire da particolari modelli interiorizzati, che si sono andati formando nel corso dell’esperienza individuale. In tal modo, le immagini vengono tra loro legate e ricondotte ad una entità psichica particolare, il proprio Sé personale, che si appropria delle immagini prodotte e degli impulsi affettivi che le hanno generate. Così facendo, il Sé delimita il suo campo d’azione e crea le condizioni necessarie per un adeguato sviluppo dell’Io e del senso di realtà.
Come mostra l’interessante capitolo della De Coro (in questo volume), le ricerche cliniche e neuroscientifiche convergono oggi nell’indicare la relazione di attaccamento come processo fondamentale nella costituzione della identità psicologica personale, cioè di quello che noi abbiamo indicato come il Sé individuale. Mentre in una prima fase della psicoanalisi, l’evoluzione di una dimensione psichica personale era stata messa in connessione con lo sviluppo del pensiero verbale [Freud 1900; tr. it. 1989], andando avanti nella ricerca clinica è emerso sempre più chiaramente che essa è legata a funzioni di tipo pre-linguistico. Oggi sappiamo che il Sé individuale si sviluppa grazie alla formazione di modelli operativi interiorizzati che legano fra loro i vari momenti affettivi e comunicativi che si esprimono all’interno della relazione diadica madre-bambino. Tali modelli costituiscono la struttura neurodinamica inconscia che consente una stabilizzazione ed integrazione delle rappresentazioni della madre (e di sé), che altrimenti sarebbero scisse e frammentarie. Detto in termini kleiniani, si tratta del fondamentale passaggio dalla “posizione schizo-paranoide” alla “posizione depressiva”, durante il quale il bambino abbandona lo stato di onnipotenza e fa i conti con lo scarto esistente tra il proprio mondo immaginario, carico di energia affettiva, ed il mondo reale, dotato di un certo grado di oggettività e persistenza.
Allo stato attuale, non abbiamo un’idea chiara dei processi cerebrali che sono coinvolti in tale fondamentale passaggio. Dal nostro punto di vista, è molto probabile che la formazione dei modelli operativi interiorizzati della relazione di attaccamento sia legata a cambiamenti neuroplastici a carico di diverse aree del sistema limbico o dei gangli della base. Pur agendo a livello inconscio, è possibile che tali cambiamenti retroagiscano sulle CMS in modo da condizionare il campo delle rappresentazioni immaginative, portando ad esempio ad una loro stabilizzazione, e condizionando di conseguenza anche l’evoluzione delle dinamiche affettive, in virtù della modulazione che le CMS esercitano sulle SSCM. In questo modo, gli stati del Sé affettivo ed immaginativo verrebbero legati tra loro e vincolati all’interno di modelli operativi stabili e persistenti.
Conclusioni
La maggior parte degli psicologi clinici e sperimentali, degli psicoanalisti, degli psicologi cognitivisti e dei neuroscienziati considera oggi il Sé come il risultato di un processo storico individuale e, dunque, come un’acquisizione dello sviluppo. In particolare, l’emergere di un senso di sé nel bambino è stato associato ad alcune capacità emotive e cognitive che vengono acquisite durante la relazione d’attaccamento, qualora essa si riveli sufficientemente buona (come esempio si veda anche il capitolo della De Coro presente in questo volume). Pur riconoscendo l’importanza di questi studi, in questo capitolo abbiamo sottolineato come lo sviluppo di un senso personale di sé non sarebbe possibile in assenza di due livelli neuropsichici più arcaici che si sono evoluti prima della formazione di un’identità psicologica individuale.
Il primo e più antico di questi livelli, il Sé affettivo, è dotato della capacità di sentire affettivamente, cioè di essere affetto da alcuni stati emozionali primari, come la rabbia, la paura, la gioia, ecc.. Il secondo di tali livelli, Il Sé immaginativo, è dotato della facoltà di immaginare, cioè di dar vita a rappresentazioni che si costruiscono intorno a stati affettivi dominanti. Questi due livelli, ciascuno legato a particolari substrati neuroanatomici e neurofunzionali, costituiscono la base su cui si fonda e da cui emerge il nostro senso di identità personale, il Sé individuale21.
A partire da una riflessione sugli studi sperimentali condotti sul cervello dell’uomo e degli annimali, abbiamo sostenuto che la vita psichica sia composta innanzitutto di immagini ed affetti che, anche se usualmente riferiti ad una soggettività che ne fa esperienza, si sviluppano tuttavia indipendentemente da essa ed ancor prima che un senso di Sé possa radicarsi stabilmente nel teatro della coscienza. Come intuito da Wilfred Bion, che parlava di “pensieri senza pensatore”, i fenomeni psichici più arcaici e primitivi germogliano in una “terra di nessuno”, prima che una distinzione tra soggetto ed oggetto si sia formata e consolidata. A questo livello, dominato da affetti edi immagini fluide, il Sé non ha ancora confini precisi e si espande sotto forma di una sensibilità cosciente diffusa ed allargata.
Note
4 Negli esperimenti citati da Northoff viene chiesto ai soggetti di giudicare quanto un determinato stimolo sia più o meno intimamente legato alla propria persona (in inglese self-related), e questo viene considerato un indice del senso implicito di sé [Northoff e Bermpohl 2004; Northoff in questo volume].
5 A conferma di quanto andiamo dicendo, si pensi a cosa accade in alcuni casi patologici di “depersonalizzazione”, oppure, a quello che accade quando si sprofonda in un attacco di panico. In questi casi, l’entrata in gioco potenti meccanismi dissociativi ci separa dal nostro “sottosuolo” affettivo ed emozionale, determinando la scomparsa del senso di sé. Nella depressione endogena, invece, lo stato di piattezza emozionale (anedonia) si associa al sentimento di una perdita fondamentale, che non è solo la perdita di un oggetto, ma soprattutto la perdita del Sé.
6 L’elettrostimolazione intracranica è una tecnica sperimentale che consiste nell’inserimento di microelettrodi in particolari centri del cervello, in modo da inviare stimolazioni elettriche ed influenzare così il comportamento dell’animale.
7 I rettili sono invece sprovvisti dei Sistemi operativi per le emozioni sociali che sono il Panico/Angoscia da Separazione, l’Amore/Accudimento e la Gioia/Gioco [Panksepp, 1998].
8 Inoltre, noi crediamo che gli effetti gratificanti delle sostanze d’abuso dipendano sempre da una stimolazione chimica dei Sistemi Emozionali positivi, innanzitutto del Desiderio/Ricerca, e dalla inibizione dei Sistemi Emozionali o negativi [Panksepp et al. 2004].
9 Il termine “protocoscienza” è stato utilizzato di recente in un articolo di J.A. Hobson [2009], anche se noi qui lo utilizziamo in una accezione parzialmente diversa.
10 Pensiamo, come esempio paradigmatico, a quello che avviene durante il sogno, quando l’attivazione automatica di riflessi di orientamento ed esplorazione nella fase REM è in grado di dar vita a rappresentazioni immaginative che hanno le stesse caratteristiche di un percetto realmente esistente nello spazio esterno [Arnulf 2011]. Questo fenomeno indica chiaramente che la capacità di rappresentare è una proprietà interna dell’organismo e non il riflesso dell’azione di stimoli esterni.
11 Inoltre, studi recenti di neuroimmagine nell’uomo indicano che l’emergere di emozioni di base si accompagna ad una attivazione metabolica nelle SSCM [Damasio et al. 2000; Liotti e Panksepp 2004; Northoff et al. 2009].
12 Alcune proiezioni partono dalle SSCM e raggiungono direttamente un complesso di strutture corticali e limbiche mediali, che per semplicità chiameremo strutture corticali mediali (SCM), le quali sono direttamente implicate nella modulazione e rappresentazione del mondo psicologico interno (vedi prossimo paragrafo). Un’altra tipologia di proiezioni raggiunge invece i nuclei della sostanza reticolare attivante, che a loro volta inviano proiezioni diffuse in tutto il cervello, raggiungendo anche le porzioni cerebrali più laterali, come le aree corticali sensoriali e motorie, implicate nella elaborazione del rapporto col mondo esterno.
13 Come è noto, anche Freud pone una dimensione istintuale, chiamata “Es”, a fondamento della psiche individuale. Tuttavia, l’ “Es” e le pulsioni freudiane non sono dotati di alcun grado di organizzazione psicologica, mentre per Jung gli archetipi sono processi psichici veri e propri, strutture formali e dinamiche dotate di enorme potere.
14 Come sottolineato da Jacob Von Uexkull [Von Uexkull e Kriszat 1967], almeno fino ad un certo livello evolutivo, non possiamo ritenere che il mondo rappresentazionale sia interno alla mente dell’animale, ma piuttosto che esso sia intimamente intessuto con il mondo esterno.
15 Sappiamo tuttavia che ci sono delle eccezioni, in quanto alcune aree del Sé affettivo posseggono una capacità molto rudimentale di rappresentare alcuni dati sensoriali (vedi paragrafo precedente).
18 Durante i sogni la capacità immaginativa si manifesta in tutta la sua purezza, vale a dire in assenza di contaminazioni provenienti dai canali sensoriali rivolti verso il mondo esterno.
19 In effetti, nonostante la sua unità, alcuni studi analitici suggeriscono di suddividere la default mode network in almeno tre subunità funzionali [Northoff 2006]. La parte ventrale, più densa di connessioni con le SSCM, sarebbe quella più direttamente legata alla dimensione affettiva e, presumibilmente, anche la parte più antica dal punto di vista filogenetico. La parte dorsale, più densa di connessioni con la corteccia prefrontale dorsolaterale sarebbe maggiormente coinvolta nelle funzioni valutative e di giudizio. La parte posteriore, infine, densamente connessa con l’ippocampo, sarebbe coinvolta nella memoria autobiografica e, più in generale, nell’organizzazione spazio-temporale dell’esperienza di sé.
20 Inoltre, l’attività a riposo nella default mode network può diventare un filtro nei confronti di stimoli che non sono coerenti con lo stato emotivo dominante. Ad esempio, nei depressi, è stata riscontrata una iperattività neurometabolica a riposo a carico delle SCM [Alcaro et al. 2010], che noi interpretiamo come il segno di una elaborazione inconscia di rappresentazioni legate all’angoscia da separazione e ad altre emozioni negative [Panksepp e Watt 2011]. Tale iperattività neurometabolica nei depressi sarebbe responsabile di una diminuita reattività emozionale nei confronti di stimoli, esterni ed interni, che contrastano lo stato affettivo dominante.
21 L’importanza dei livelli archetipici per lo sviluppo del Sé individuale può essere facilmente dimostrata. Ad esempio, tutte le forme di apprendimento che hanno luogo durante l’esperienza personale, e che quindi andranno a costituire l’impalcatura inconscia del Sé individuale, sono guidate da affetti. Le ricompense e le punizioni che governano i fenomeni di condizionamento dipendono dall’attivazione di stati affettivi protocoscienti che, attribuendo un valore positivo o negativo all’esperienza, determinano il comportamento dell’animale nelle medesime situazioni ambientali [Panksepp 2011a; 2011b]. In assenza del Sé affettivo, dunque, mancherebbero le coordinate fondamentali che orientano lo sviluppo del Sé individuale. Un altro esempio paradigmatico riguarda il tema dell’empatia. Come riportato da più di un autore in questo volume, le ricerche interessate al tema hanno considerato i fenomeni empatici perlopiù in una prospettiva cognitiva, ed hanno individuato in aree del sistema limbico superiore e della neocorteccia i sostrati neuroanatomici responsabili [Gallese 2003; Legerstee et al. 2013]. Tuttavia, i fenomeni empatici sarebbero impossibili senza una forma di “risonanza” o “contagio emozionale” reso possibile dal fatto che tutti gli uomini ed anche altre specie animali posseggono i medesimi circuiti cerebrali sottocorticali da cui derivano alcuni stati affettivi comuni [Panksepp 2011b; Panksepp e Panksepp 2013].
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immagine di Sean Stein