Antonio Alcaro
Alcune interessanti ricerche internazionali indicano che i disturbi dello spettro autistico stanno significativamente aumentando negli ultimi 20 anni (Croen et al., 2002; Kim et al., 2011, Hatanaka, 2016). Appartengono a tale categoria diagnostica tutti quei casi caratterizzati da disfunzioni significative a carico delle interazioni sociali, della comunicazione e dell’immaginazione ed in cui si manifesta spesso una restrizione dei propri interessi all’interno di attività ripetitive (Wing, 1996). Pertanto, secondo tale accezione allargata, rientrano nello spettro autistico tutti i disturbi pervasivi dello sviluppo ed anche alcune forme di ADHD (Kawai, 2009).
Al di là delle patologie conclamate che rientrano nello spettro autistico, è possibile inoltre ravvisare la presenza di alcune tendenze autistiche nei nostri attuali stili di vita. Pensiamo, ad esempio, al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Non soltanto i casi problematici registrati nelle scuole sono in costante crescita, tanto da richiedere sempre più massivamente il supporto di figure ausiliari a quelle dei docenti, ma si registra anche una crescente fragilità che porta bambini ed adolescenti a rifiutare il mondo esterno ed a rifugiarsi nell’isolamento domestico, in cui il contatto con gli altri è filtrato e distorto dall’uso di strumenti tecnologici (Cantelmi, 2013). Ovviamente, tutto questo è stato notevolmente amplificato, negli ultimi due anni, dalla diffusione della pandemia del Covid-19 e dalle misure restrittive attuate dai governi nel tentativo di proteggerci dai contagi.
Negli ultimi due anni, il lavoro all’interno dei servizi di consulenza e psicoterapia sociale dell’associazione Psicologi in Ascolto, che opera in diversi territori della città di Roma, si è caratterizzato sempre di più come un aiuto per uscire dall’isolamento, dalle condotte ossessive e dai pensieri di malattia e morte, per ritrovare interesse e fiducia per la vita. Per molti pazienti, il fatto di venire in studio dal terapeuta ha l’unica occasione di uscire di casa e di incontrare qualcuno. E molto spesso i problemi peggiori non si sono riscontrati nel momento in cui le restrizioni erano più rigide, ma, paradossalmente, proprio quando si trattava di riprendere una vita normale. In questi frangenti, infatti, emergeva in tutta la sua portata una sorta di stanchezza esistenziale di fondo, dove tutto appare vuoto, privo di senso e, dunque, estremamente faticoso.
Secondo una linea interpretativa proposta da alcuni psicologi junghiani, e non solo, l’autismo è un fenomeno caratterizzato da una carenza di soggettività (alcuni direbbero del Sé, o dell’Io), vale a dire da una contrazione se non da un vero e proprio collasso della vita mentale, in cui si riscontra una progressiva perdita di intensità dei propri vissuti esperienziali (Fordham, 1976). Tutto perde di senso, diventando piatto e informe. La vita mentale si restringe progressivamente fino ad essere parzialmente annichilita dal vuoto e dall’azione meccanica di gesti o pensieri ripetitivi (Fordham, 1976; Kawai, 2009). Il collasso della soggettività è inoltre intimamente legato alla perdita di intenzionalità attiva ed alla scomparsa della dimensione relazionale. Secondo la terminologia propria della psicologia della Gestalt si tratta della erosione della cosiddetta “funzione di confine” (Perls, Hefferline e Goodman, 1997), vale a dire della membrana psichica che serve per separare e connettere. Essa si esprime in attività come il linguaggio, il pensiero, il gioco creativo, l’immaginazione, ecc., che svolgono un ruolo fondamentale di comunicazione, differenziazione, organizzazione e sviluppo della personalità individuale.
A causa di tali mancanze, le persone caratterizzate da un profilo autistico vivrebbero in una condizione mentale dominata dall’indifferenziazione e dal caos. A conferma di quanto detto, una ricerca condotta con il test di Rorsarch (Hatanaka, 2013) ha dimostrato che i soggetti con disturbo dello spettro autistico forniscono risposte indefinite in misura molto maggiore rispetto ai soggetti di controllo, come ad esempio “un certo animale” piuttosto che “un cane”, oppure “un leone? Un gatto? … non so”. Tutto ciò viene interpretato come indice di una agentività debole e di una tendenza a permanere in uno stato indeterminato. Peraltro, le ricerche col test di Rorsarch indicano che negli ultimi 15 anni la tendenza dei soggetti normali a fornire risposte indeterminante è in aumento, come se la popolazione comune presentasse una graduale trasformazione in senso autistico (Hatanaka, 2016).
Per proteggersi dal caos, i soggetti autistici utilizzano strategie difensive atte ad arginare qualsiasi fonte di tensione, come ad esempio le attività autosensuali, in cui dominano i meccanismi di autoregolazione a discapito dell’apertura alle esperienze di contatto. Detto in altre parole, a fronte di una difficoltà di organizzazione interna, il soggetto risponde autisticamente nella misura in cui si isola dal contatto con la realtà evitando qualsiasi stimolo che è fonte di perturbazione e chiudendosi in una autostimolazione che non ammette aperture, discontinuità o faglie. La dimensione autistica è pertanto caratterizzata da una adesione pressochè assoluta dell’organismo a se stesso, da una continuità uruborica che non ammette l’intromissione dell’Altro. Se vogliamo, si tratta di una regressione ad una condizione fetale primigenia, in cui la vita dell’organismo si svolge interamente all’interno del grembo di una Grande Madre dove non è data alcuna possibilità di nascita e differenziazione.
A conferma di quanto detto, il predominio dei meccanismi autoregolatori è stato dimostrato anche neurobiologicamente. Nei soggetti autistici, infatti, la regolazione degli stati di benessere o malessere ad opera degli oppiacei endogeni funziona in un modo indipendente dal contatto affettivo con la figura di attaccamento (Sahley e Panksepp, 1978; Johnson et al., 2014). Mentre nei soggetti normali gli oppiacei endogeni vengono rilasciati quando la madre si prende cura del piccolo, nei bambini autistici la liberazione degli oppiacei endogeni avviene indipendentemente dalla presenza del caregiver. Pertanto, i bambini autistici non sperimentano particolare angoscia o dolore quando sono lasciati soli, né particolare piacere quando la madre è con loro. Inoltre, nei soggetti autistici è stato anche riscontrato un deficit in alcuni circuiti cerebrali che controllano le disposizioni emozionali sociali positive, come la Ricerca, la Cura o il Gioco (Burgdorf et al., 2013; Supekar et al., 2018; Kishida et al., 2019). A causa di una tale carenza, essi mostrano una diminuita motivazione al contatto ed alla comunicazione sociali.
Come ipotizzato da Tustin (1990), le barriere autistiche svolgono la funzione di isolare il soggetto da stimoli che appaiono invadenti, minacciosi ed alieni, perché privi di un senso riconoscibile e di un ordine intellegibile. D’altronde, l’impiego reiterato di difese autistiche priva il soggetto delle esperienze di contatto con l’Altro e lo spinge a rintanarsi all’interno dei confini della sua individualità organica. Viene pertanto a crearsi un circolo vizioso in cui lo stato di indifferenziazione amplifica la tendenza all’isolamento ed impedisce di vivere esperienze significative capaci di sviluppare la cosiddetta “funzione di confine” e promuovere lo sviluppo psichico e l’individuazione. In altri termini, se la disorganizzazione stimola l’impiego di difese autistiche, d’altro canto l’impiego reiterato di difese autistiche favorisce il permanere in uno stato di indifferenziazione e di caos, in quanto lo sviluppo psichico e l’organizzazione della personalità individuale dipendono dalle esperienze di relazione con ciò che è nuovo, inatteso e diverso da sé.
Sebbene le forme più gravi di autismo siano riconducibili a disfunzioni neurocognitive congenite, un ruolo importante nella determinazione di alcune importanti manifestazioni autistiche sono attribuite ad una mancata sintonizzazione affettivo-comunicativa tra il bambino e le figure di attaccamento (Tustin, 1990). Anche se può essere influenzato dalla costituzione individuale o da handicap sensoriali del bambino, il problema di sintonizzazione affettivo-comunicativa non ha luogo nell’individuo singolo, ma nel campo relazionale costituito dal bambino e dall’ambiente familiare (e forse, in parte, anche da quello scolastico). Visto sotto questa luce, l’autismo è il risultato di un adattamento dell’individuo al campo relazionale di cui fa parte. Non sentendosi sufficientemente protetto, sorretto e contenuto nel suo ambiante socio-affettivo, il bambino sperimenta un’angoscia di separazione insopportabile che lo porta a difendersi dal mondo con l’adozione di barriere difensive molto primitive.
Se dunque mettiamo al centro della problematica autistica il difetto di comunicazione e sintonizzazione affettiva, l’incremento di comportamenti autistici nel mondo contemporaneo dovrebbe essere legato a cambiamenti nell’organizzazione di vita dei genitori, dei familiari più prossimi e, più in generale, nei valori, usi, abitudini, schemi esistenziali ed ideologie del mondo che ci circonda. Vale dunque la pensa, forse, di porsi seriamente alcune questioni. Si tratta di un fenomeno transitorio o strutturale? In che modo possiamo metterlo in relazione con le vicissitudini storiche ed antropologiche della nostra epoca? Come individuarne le cause e cercare di arginare o correggere questa deriva?
Ovviamente, rispondere in poche righe a queste domande non è un’operazione possibile. I fattori in causa sono tantissimi e siamo troppo interni al fenomeno osservato per poterlo descrivere oggettivamente e rigorosamente. Tuttavia, mi sembra verosimile ipotizzare che la diffusione di problematiche autistiche nell’infanzia possa essere ricondotto ad una riorganizzazione autistica della vita familiare e sociale. Purtroppo, infatti, l’impiego di barriere autistiche è contagioso, nella misura in cui amplificando una disconnessione relazionale rende le esperienze di contatto sempre più angosciose e perturbanti e finisce per favorire strategie di adattamento autocentrate. In termini più generali, poi, il caos distonico che innesca le barriere autistiche potrebbe essere ricondotto ad una disconnessione della nostra specie da un ordine naturale, culturale e spirituale che conferisce alla vita umana un senso ed una direzione (Bollas, 2018; Ferraresi, 2020). Fuori da questo ordine, l’individuo singolo non trova il nutrimento sufficiente per sostenere la sua esistenza. Per quanto il progresso tecno-scientifico sostenga il mito dell’individuo autonomo, che progetta se stesso in base alla sua libera volontà, affrancandosi da ogni vincolo e costrizione, il risultato di questo delirio di onnipotenza rischia di essere paradossalmente proprio il collasso della sua stessa possibilità di esistere in quanto soggetto.
Bibliografia
Bollas, C. (2018). L’età dello smarrimento. Senso e malinconia. Milano: Raffaello Cortina Editore.
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Supekar, K., Kochalka, J., Schaer, M., Wakeman, H., Qin, S., Padmanabhan, A., & Menon, V. (2018). Deficits in mesolimbic reward pathway underlie social interaction impairments in children with autism. Brain, 141, 2795–2805. https://doi.org/10.1093/brain/awy191.
Tustin, F. (1986) Barriere autistiche in pazienti nevrotici. Borla, Roma, 1990.
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