Di cosa ha paura chi soffre di attacchi di panico?

di Antonio Alcaro

L’etimologia del termine ‘panico’ rimanda direttamente alla mitologia greca e più precisamente a Pan, il dio dalle sembianze per metà umane e per metà caprine. Secondo la tradizione greca, Pan abita le foreste ed i luoghi selvatici e la sua vista od il suono del suo flauto scatenano un terrore inimmaginabile ed una fuga disperata. Il dio Pan è anche ritenuto responsabile degli incubi notturni che sono talmente angoscianti da causare un risveglio improvviso (Hillmann, 1972[1]).

Curiosamente, il mito greco narra che la ninfa da cui nacque il dio Pan, di nome Driope, andò solitaria nella foresta per dare alla luce la sua creatura. Appena partorita, fece per prenderla fra le braccia, ma vide che era per metà uomo e per metà caprone e fuggì inorridita, lasciando il piccolo Pan solo nella foresta, senza la mediazione necessaria delle braccia della madre e di una casa.

La mitologia greca stabilisce dunque un legame tra il panico e l’esperienza di essere abbandonati senza sostegno. Questo legame è in realtà molto più di una suggestione, e rivela uno degli aspetti fondamentali del sintomo. In effetti, gli studi epidemiologici indicano chiaramente che il disturbo di panico si manifesta fra l’adolescenza e i 35 anni di età (DSM 5), un periodo caratterizzato dal fisiologico processo di separazione dalle appartenenze familiari e dal movimento verso l’autonomia e il mondo. Inoltre, l’esordio del panico negli adulti è molto spesso preceduto da esperienze di separazione, lutto o altri eventi che implicano un allontanamento fisico o emotive da una figura significativa. Citando le parole di alcuni pazienti:

mi sono iscritto all’università e ho lasciato il mio gruppo di amici’, ‘la mia fidanzata mi ha lasciato e mi sono trasferito per lavoro in un’altra città’, ‘sono stato promosso in azienda e sono andato a vivere da solo’, ‘si, sono cambiate un po’ di cose: ho finito l’università e ho cominciato dei lavoretti saltuari, intanto mia sorella maggiore se n’è andata di casa e vive all’estero’.

Esplorando i vissuti che hanno accompagnato questi cambiamenti si incontra tipicamente l’esperienza di sentirsi più soli ed esposti senza la mediazione delle appartenenze e delle relazioni che prima facevano da filtro. Con le parole di un paziente:

Mia nonna è morta quasi un anno prima che comparisse il panico. Non avevo dato importanza alla cosa, in fondo lei aveva vissuto la sua vita ed io avevo la mia vita. Però, ora capisco qualcosa di diverso: la nonna mi aveva cresciuto perché i miei genitori erano separati e lavoravano. Se penso all’odore della cucina della nonna o le carezze che mi faceva per calmarmi, ora mi viene da piangere e mi rendo conto di quanto sia stata importante per starmi vicina mentre crescevo. Se ci penso, ora mi sento terribilmente triste e solo’.

L’intima relazione tra panico ed esperienza di solitudine dà senso a tre aspetti tipici della sintomatologia del panico: l’agorafobia, la necessità di essere accompagnati ed i problemi respiratori (sensazione di soffocamento e altro). Per quanto concerne il fenomeno dell’agorafobia[2](agorà=piazza; phobos=paura), esso concretizza proprio la situazione di essere troppo esposti senza un’adeguata protezione. In quest’ottica, la necessità di essere accompagnati, a volte così forte da rendere impossibili gli spostamenti in autonomia, esprime proprio la necessità di una figura di mediazione tra sé ed il mondo. Per quando riguardo i problemi respiratori, infine, recenti studi scientifici hanno dimostrato una importante connessione neuro-evolutiva tra i comportamenti innescati dall’angoscia da separazione (come il pianto) e le funzioni respiratorie (Porges, 2014[3]; Panksepp e Biven, 2014[4]). E’ pertanto possibile che la sensazione di soffocamento, la fame d’aria e tutti gli altri sintomi respiratori siano una espressione somatizzata di un emozione legata alla perdita ed alla paura di restare soli. Questa emozione dipende dall’attività di un particolare circuito cerebrale, presente in tutti i mammiferi e negli uccelli, che promuove comportamenti di protesta e richiamo della madre quando essa si allontana dai suoi cuccioli (figura, 2).

Tenendo conto delle osservazioni che abbiamo brevemente esposto, è opportuno considerare il disturbo di panico come una complessa situazione clinica che emerge in relazione ad un’esperienza emozionale molto precisa: l’angoscia di restare soli e senza supporto. Purtroppo, chi soffre di questo disturbo non riesce a riconoscere che l’attacco di panico esprime in realtà il bisogno di una protezione affettiva, perché tale bisogno è stato più volte frustrato e negato nella sua storia passata, soprattutto nell’infanzia.

Infatti, chi soffre di panico presenta prima dell’esordio del disturbo uno stile relazionale spiccatamente autonomo e indipendente, poco incline a chiedere aiuto o ad appoggiarsi agli altri e difficilmente capace di esprimere i propri bisogni affettivi e relazionali (Francesetti, 2005[5]). Pertanto, l’insorgere del panico sconvolge l’equilibrio del paziente facendo emergere in modo dirompente e incomprensibile il bisogno di aiuto, prima come soccorso medico poi come bisogno di rassicurazione, accompagnamento e vicinanza.

Mentre all’esordio il paziente non sa comprendere quanto gli sta accadendo (e per questo si rivolge al pronto soccorso), un percorso psicoterapeutico può portare pian paino all’emergere di un’altra dimensione emotiva: quella legata alla solitudine. Con le parole di una paziente:

ho scoperto che il punto non è che ho paura di morire, ma è il fatto è che mi sento sola da morire… da sempre’.

In genere le emozioni che accompagnano la scoperta della solitudine sono la tristezza e la rabbia:

Sento una tristezza che non sapevo di avere, non so perché piango, non è successo nulla di grave…’; ‘adesso mi rendo conto che ho sempre avuto una solitudine di fondo, non so come non riuscissi a sentirla’; ‘Mi scopro a ripensare a me bambina, a come ero brava a scuola e non piangevo mai quando si salutavano i genitori per andare in gita… gli altri piangevano e io no. Ora ripensarci mi dà una tristezza infinita e non so perché…’; ‘Ma perché dovevo essere sempre così brava? Perché non potevo piangere anch’io come gli altri e volere mia madre? Ma certo che non potevo: mia madre mi avrebbe risposto con freddezza e mi avrebbe umiliata, e mio padre le avrebbe dato ragione! Che rabbia sento ora verso di loro!’.

L’emergere del senso di solitudine è un passaggio difficile, che richiede tempo e supporto relazionale. In principio, la solitudine non solo non è percepita, ma si osserva una certa reattività o riluttanza a toccare questa emozione, come se non fosse ammissibile. Solo grazie ad una paziente esplorazione terapeutica il paziente gradualmente la riconosce e la legittima:

‘Non avevo mai pensato di potermi sentire sola, sono sempre stata io il riferimento per i miei amici, la spalla su cui potevano appoggiarsi. Prima del panico ero molto autonoma, dopo invece non mi muovevo senza qualcuno che mi accompagnasse, ma ancora non capivo… ora sento di aver bisogno della vicinanza e dell’abbraccio di qualcuno, ma mi costa moltissimo ammetterlo, anche se non so perché…’.

 

Questo articolo è il prodotto della collaborazione tra l’autore e Gianni Francesetti, noto psichiatra e psicoterapeuta di orientamento fenomenologico-Gestaltico, che da anni si occupa di questi temi. Il materiale clinico presente nell’articolo è in buona parte tratto dai suoi testi.

 

[1]Hillman, J., Saggio su Pan, 1972, Adelphi, Milano, 1997.

[2]L’agorafobia è molto presente nei pazienti affetti da disturbo di panico, tanto che a volte essa è stata fatta rientrare nel quadro sintomatologico del panico, mentre altre volte è stata operata una distinzione tra disturbo di panico con e senza agorafobia.

[3]Porges SW. “La Teoria Polivagale: fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione” Giovanni Fioriti Editore, 2014.

[4]J. Panksepp, L. Biven (2014), “Archeologia della mente. Origini neuro evolutive del cervello umano”, R. Cortina, Milano.

[5]Francesetti G (a cura di). Attacchi di panico e postmodernità: La psicoterapia della Gestalt tra clinica e società. Milano, Angeli, 2005.