Don’t look Up. La lotta delle narrazioni

Daniele Faro 

Mettendo da parte ogni valutazione artistica, quello su cui vorrei coinvolgervi riguarda la  rappresentazione che Don’t look Up fornisce dei comportamenti dell’umanità di fronte a una crisi  collettiva. La globalizzazione, attraverso l’intensificarsi degli scambi commerciali tra paesi, ha  ridisegnato un mondo dove tutto ciò che è locale può diventare globale, che si tratti di pandemie,  dell’impatto delle attività umane sul clima o del livellamento di pensieri, gusti e culture, la dove per sentirsi cittadini dei social, bisogna condividerne codici e valori in modo più o meno acritico.  Attraverso il pretesto di una cometa che in sei mesi di tempo arriverebbe a schiantarsi sulla terra,  Don’t look Up mette in scena le reazioni collettive ai tempi dell’Homo Social.  Come ci ricorda Luca Caleada1, nel 2011 attraverso un film chiamato Contagion che racconta gli  effetti di una pandemia globale, era ancora possibile immaginare un lieto fine con gli abitanti del  pianeta che una volta trovata la cura si mettevano in fila per ricevere il vaccino. Il presente svela  quanto questa rappresentazione di un lieto fino guidato dalla razionalità risulti inverosimile e Don’t  look up si incarica di raccontare quest’attualità. 

Il film parla di una questione che pur essendo attualissima è antica quanto l’uomo stesso. L’eterna  difficoltà con cui ci confrontiamo ogni volta che la realtà ci chiede di riorganizzare la nostra  descrizione del mondo. C’è una cometa che sta per abbattersi sulla terra. Far fronte a questo evento  richiede di rimettere in discussione tutta una serie di assunti, stili di vita, credenze, identità. Questa  operazione, lungi dall’essere scontata, può comportare delle difficoltà tali che assai spesso  l’individuo, i gruppi o i popoli, nel corso della storia hanno scelto più o meno consapevolmente, la  morte.  

Piaget proponeva che l’adattamento all’ambiente dipendesse da due processi: Assimilazione e  Accomodamento. Intendendo per Assimilazione quel processo mentale che ci porta a ricondurre un  nuovo stimolo entro i parametri del già noto. L’Accomodamento, al contrario, prevede che lo  stimolo in virtù delle differenze che gli vengono riconosciute, arrivi a modificare gli schemi di  interpretazione della realtà di cui siamo portatori. 

Assimilazione e Accomodamento sono le due modalità di rapporto con i dati di realtà. Il modo in  cui utilizziamo i processi di Assimilazione a Accomodamento, il modo in cui interpretiamo la realtà, dipende a sua volta dalle culture di cui facciamo parte, dai riferimenti che abbiamo o scegliamo per  occuparci della nostra identità. L’identità è un artificio complesso che risponde a vari bisogni  soggettivi e relazionali. Allo scopo di mantenere stabili tutte le varie sfaccettature della nostra  identità assimiliamo la realtà a determinate letture presenti nelle culture in cui ci riconosciamo, e  questo, nella migliore delle ipotesi, può produrre un nostro contributo creativo alla rappresentazione di una certa parte del mondo, anche se spesso ciò si traduce nella reificazione di stereotipi derivanti  dalle culture di riferimento. 

La lotta delle narrazioni sulla realtà al giorno d’oggi è diventata molto violenta. Ogni possibile  scontro viene disinnescato riducendo il dibattito alla conta di chi è ‘pro’ e di chi è ‘contro’ un  certo tema, diventando così una lotta di identità senza termini di verifica, senza riscontri ne veri  argomenti, che per esser tali richiederebbero la possibilità di essere falsificabili. Quando i più  svariati argomenti vengono sistematicamente utilizzati da ambo le parti per confermare i propri  

opposti assunti, sono gli argomenti stessi a sparire, a diventare inconsistenti. Tutto è destinato a  diventare irrecuperabilmente soggettivo, fatto su misura dei propri valori invece che dei feedback  provenienti dalla realtà, e questo crea il presupposto per l’impossibilità di intendersi. Ma determinati problemi globali non possono essere affrontati in un’ottica individualista, richiedono una risposta  collettiva.  

Declinando la logica quantitativa ‘pro’ vs ‘contro’, il titolo del film nasce in risposta al hashtag che  gli scienziati usano per richiamare l’attenzione pubblica sul dato di realtà, “guardate in alto!”  prendete atto della cometa. A questo hashtag viene contrapposto #Don’tLookUp. Questo è un ‘non  guardare in alto’ che diventa un ‘non guardare in altro’. Un non guardare in altro che non confermi  la tua visione del mondo e l’identità su di essa costruita. Ma questo, appunto, porta alla morte.  L’identità ha bisogno dell’estraneità (Remotti 1996); il problema dell’identità è quindi il problema  del rapporto con l’alterità, tanto interna quanto esterna. L’identità, attraverso il riconoscimento di  corrispondenze, ci inscrive in uno o più insiemi, appartenenze; così facendo contemporaneamente ci individualizza. A tal riguardo Carli propone la ‘continuità’ e la ‘discontinuità’ dell’identità come  dinamiche di adattamento al contesto. Il venir meno di una di queste di queste due componenti può  comportare problematiche importanti. Nel caso in cui non si riesca ad elaborare la componente di  ‘continuità’, si può vivere conformando se stessi ad ogni diversa proposta che si incontra attraverso  i contesti oppure è possibile sentire la propria autostima come totalmente dipendente dal riscontro  degli altri. Viceversa, senza lo sviluppo di una competenza alla discontinuità dell’identità, si finisce  per impersonare un ruolo rigido, violento nella sua incapacità di rapportarsi all’alterità (2012). 

Al giorno d’oggi, nella misura in cui si è sempre meno attrezzati per stare in rapporto con l’alterità,  tutti corriamo il rischio di parlarci soltanto addosso. Per chi scrive, questo è uno degli aspetti più  dolorosi dell’attualità. Gli algoritmi su cui funzionano i social, selezionano contenuti e contatti che  vengono ritenuti in accordo coi nostri punti di vista, e su questa scia non è raro assistere a qualcuno  che periodicamente annuncia “pulizie” tra i propri contatti, riducendo le proprie bacheche ad un  semplice specchio della propria descrizione del mondo. Questa incompetenza all’alterità è così  efficacemente raccontata nel film che essa finisce per dimostrarsi anche nella discussione pubblica  relativa al il film stesso. Come rilevano Pierluigi Battista2 o Lorenzo Marone3, esso piace (o viene in egual misura criticato) sia da negazionisti che dagli scientisti, dagli odiatori delle elites quanto dei  populismi, in un trionfo della soggettività rivolta solo a se stessa.  

Tutto ciò non fa che svelare l’attualità. In questo momento se un ‘Si Vax’ incontra un ‘No Vax’ nella maggioranza dei casi o si ignorano facendo finta di niente, o si insultano. Confrontarsi o al limite  scontrarsi, viene vissuto come insostenibile.  

Ma questa difesa ossessiva della propria identità la depaupera fino al punto di lasciarla morire. La  rassicurazione a tutti i costi fa sparire la realtà, che però non si lascia mettere da parte. Allora  rimettere in discussione il proprio rapporto con la realtà può essere un’operazione dolorosa. La  sostenibilità del cambiamento della propria descrizione del mondo è un problema molto serio, che  quotidianamente ci interpella come psicologi e, prima ancora, come abitanti di un pianeta  profondamente minacciato dai cambiamenti climatici indotti.  

Vengono alla mente i miti: Narciso, che si specchia in se stesso fino a morire, e prima ancora la  vicenda di Ulisse e Polifemo. Una delle principali etimologie del nome Polifemo corrisponde a  ‘Colui che parla tanto’, verrebbe da pensare che parla tanto di sé stesso e che lo fa utilizzando un  solo ‘occhio’, incapace di visione stereoscopica, di meta-pensiero, solidificando così la propria  identità fino al punto da finire accecato da essa. Ulisse per evitare di venire divorato da ‘Colui che  parla tanto’ dovrà muoversi in direzione contraria: mettere da parte la propria nomea di eroe della  guerra di Troia, di regnante di Itaca, di capo della spedizione e non ultimo di colui che si è reso  responsabile della morte dei compagni, fino a ritornare momentaneamente ‘nessuno’, facendosi  carico dello spaesamento e del tradimento delle proprie immagini di sé, positive o negative che  siano. Ulisse e Polifemo come possibilità entrambe ripetutamente conosciute nell’esperienza  quotidiana: l’identità intesa come fine a se stessa o come strumento. L’identità intesa come  strumento è al servizio del pensiero emozionato, alla costruzione di “cose terze” entro i rapporti. Il  rapporto psicoterapeutico può essere il luogo ove sperimentare la relatività delle proprie  identificazioni, dove ciò che si ritiene di se stessi passa in secondo piano rispetto al come questa  conoscenza viene utilizzata nei contesti.  

L’identità può essere allora valorizzata per la sua componente di artificio; la costruzione creativa di  una cosa che riguarda sé pur essendo altro da sé e che proprio in virtù di questo permette di non  identificarsi in pieno con quanto vissuto, di poter vivere ironicamente i riscontri ricevuti dal  contesto, senza sentirne distrutta o glorificata la propria totalità; di riconoscere l’altro nella sua  alterità. L’identità come interfaccia facilitante la propria partecipazione a contesti e appartenenze.  Idea questa ben espressa dall’etimologia di un gruppo di parole semanticamente contigue con  l’identità, come ‘persona’, ‘personalità’, ‘personaggio’, che rimandano al parlare attraverso una  maschera, uno strumento.  

foto di Engin_Akyurt da pixabay- CC license

articolo pubblicato su 180gradi.org

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1 https://www.dinamopress.it/news/dont-look-up-giant-meteor-for-president/

2 https://www.huffingtonpost.it/entry/dont-look-up-rischia-di-piacere-a-tutti-negazionisti-e-iper scientisti_it_61cd50dae4b0c7d8b8a15c7e 

3 https://napoli.repubblica.it/commenti/2022/01/02/news/don_t_look_up_siamo_la_societa_della_rimozione 332430635/

Carli, R. (2012) Divagazioni sull’identità. [A Digression on Identity]. Rivista di psicologia clinica,  2.  

Remotti, F. (1996) Contro l’identità. Laterza, Bari.

Perchè piace Squid Game?

Daniele Faro

Squid Game a mio parere non è una serie bella. Contemporaneamente è uno dei principali fenomeni di massa di questo periodo, ed anche se in questi anni i fenomeni di massa si succedono abbastanza in fretta, lasciando spesso il tempo che trovano, rimane interessante provare a capire il perché impattino tanto a livello collettivo, entro l’ipotesi che un fenomeno che diventa di massa sia in grado di intercettare qualcosa riguardo le vite che stiamo facendo, le culture in cui siamo immersi. L’articolo che segue è un tentativo di iniziare a dare risposta a questa domanda.

In estrema sintesi, affermo che Squid Game non sia una bella serie perché non presenta né personaggi indimenticabili né una trama che aggiunga qualcosa di diverso ai tanti racconti del genere Battle Royale che dai gladiatori in poi hanno frequentato il nostro immaginario. Rimane il dato dell’enorme interesse che ha suscitato, ma questo credo si possa comprendere attraverso motivi che esulano dal suo valore narrativo e di cui mi piacerebbe discutere. Credo che la cosa che affascini di Squid Game sia l’ideale di violenza che propone. Per quanto la maggior parte delle persone razionalmente deprechi la violenza, entro certe circostanze e a fronte di determinate motivazioni, altamente soggettive, è disposta ad accettarla o a esercitarla. In Squid Game la violenza ha come unico movente il proprio tornaconto personale. Non vi è neanche sadismo, il piacere di causare sofferenza, ma una lucida violenza utilizzata come strumento per raggiungere i propri scopi. Quando parlo di fascino, parlo di un’emozione complessa che contiene al suo interno aspetti repulsivi e attraenti, che chiedono di essere capiti più in dettaglio. Freud chiamava questo tipo di vissuti perturbanti o “il perturbante”, facendo riferimento alla natura manifestamente ambivalente di questa emozionalità, che ci fa sentire contemporaneamente qualcosa di estraneo e qualcosa di famigliare. Secondo Freud, attraverso un’opera letteraria (o televisiva in questo caso) sperimentiamo un ‘ritorno del rimosso’. Ma di quale rimosso? Facciamo un passo indietro.
In Squid Game apparentemente ci sono due gruppi. Apparentemente questi gruppi sono il gruppo dei giocatori, che sceglie volontariamente di giocare ed il gruppo dell’organizzazione che mette in piedi gli Squid Games, fatta di Vip, Frontman e tute rosse (Quadrati, Triangoli e Cerchi). In verità i due gruppi sono differenti: i giocatori tute blu, assieme alle tute rosse compongono il primo gruppo mentre i VIP costituiscono il secondo gruppo. In verità questi due gruppi sono un unico grande gruppo, ma per ora vediamoli separatamente. Il primo gruppo (tute blu + tute rosse) è accomunato dal movente economico. Attraverso il movente economico si è disposti ad uccidere a sangue freddo chi continua ad esempio a muoversi dopo l’un,due tre Stella, o si è disposti a spingere il compagno sulla lastra di vetro davanti, per vedere se questa tiene oppure no. Qui l’elemento perturbante è lo scarso valore che viene dato alla vita altrui e la fantasia che il guadagno economico sia la risposta ai problemi della propria vita. Tra il ritenere che la vita altrui abbia scarso valore ed il ritenere che il guadagno economico sia l’elemento cardine per riscattare la propria vita, c’è chiaramente un nesso che rimanda ad una cultura fatta di disperazione, che espliciterò nel procedere dell’articolo.
L’altro gruppo è il gruppo dei VIP, persone smisuratamente ricche, di cui non si conosce l’identità e che per noia organizzano gli Squid Game, come forme di intrattenimento. Qui l’elemento perturbante è la sensazione di vuoto che devono vivere questi personaggi. Hanno le risorse economiche per fare ogni cosa, per coltivare potenzialmente ogni genere di interesse, ma di interessi realmente vitalizzanti sembrerebbero non averne nessuno. Coltivare interessi ha a che fare col mettere in gioco risorse che solo marginalmente c’entrano col denaro, e questo i VIP sembrano non saperlo fare. Sentono che nella propria vita non c’è niente in grado di dargli un vero senso, valore, uno scopo, se non l’eccitazione del vedere gli altri ridotti allo spettacolo delle bestie, cioè del trovare negli altri tanto una conferma della propria miseria quanto della propria ricchezza. Attraverso lo spettacolo che organizzano va in scena la loro personale rappresentazione dell’essere umano. I miserevoli che volontariamente decidono di partecipare e ammazzarsi per soldi confermano questa rappresentazione, rassicurando i VIP su una specifica idea di fondo: che nella vita non vi sia nulla di realmente prezioso ad eccezione del potere conferito dal denaro. Essi forse guardano gli Squid Games sperando segretamente che questa rappresentazione venga smentita, che prima o poi ci sia qualche giocatore che mostri loro un’altra possibilità, e questo in parte alla fine della serie, quando Gi-hun offre la mano a Sang-woo, sembra succedere. Ma fintanto che ciò non avviene sembrano nutrirsi in maniera contro-depressiva dell’idea che il denaro esaurisca ogni possibile significato della vita. Il denaro diventa uno strumento per possedere gli altri, e possedere gli altri diventa l’unico modo di stare al mondo. Il denaro è l’unica cosa che fa sentire i VIP differenti dai giocatori e dal resto dell’umanità, che li fa sentire speciali. L’unica cosa per loro in grado di rispondere a quella pressione interna, a quella domanda fondamentale, preziosa e assillante con cui ciascuno in vita si confronta: come sto dando senso a questa mia esistenza? Come sto usando questo tempo? Cosa me ne sto facendo delle risorse che oggi ho, sapendo soltanto che prima o poi mi verranno tolte?

In questo caso la sensazione di possedere, il denaro e attraverso esso i rapporti, arriva a sostituirsi alla sensazione di essere, di essere in grado di creare prodotti, di costruire e manutenere rapporti affettuosi; alla sensazione di essere in larga parte ignoti a se stessi, contenitori di misteri, e quindi di mettersi nella posizione di conoscere se stessi e di riflesso gli altri, il mondo. Il possedere diventa un balsamo, un salvavita prezioso, contro l’angoscia del non saper coltivare l’essere.
Questi due gruppi, sotto questo aspetto, sono in verità un unico gruppo.
Un gruppo che al di là delle posizioni di estrema agiatezza in cui si trovano i VIP o estrema necessità in cui si trovano i giocatori, condivide la medesima cultura. Una cultura che è fatta di disperazione. Una cultura ove non è possibile rintracciare nessuna risorsa, nessun vero potere, se non quello conferito dal denaro. Una cultura ove non ci sono competenze umane, relazionali o tecniche su cui vale la pena investire, dove anche gli studi universitari tanto idealizzati, fatti da Cho Sang-woo, uno dei personaggi più emblematici della serie, non sono uno strumento di arricchimento culturale o esistenziale, ma sono soltanto un mezzo per entrare a far parte del mondo degli affari, dell’alta finanza, da cui si viene inghiottiti per trovarsi infine a far parte delle truffe dei colletti bianchi. In questa cultura investire desiderio sui rapporti sembra essere molto difficile, faticoso, perché la diffidenza e la sensazione di vivere in un modo dove tutti sono contro tutti fanno da basso costante.  
Questa è una cultura che a gradi diversi interessa tutti i 456 giocatori che decidono di giocare. Se questo è molto evidente in personaggi come il malavitoso Jang Deok-su sembra esserlo meno per personaggi come il pakistano Alì Abdul. Per quello che allo spettatore è dato sapere, Alì, dei 456 giocatori, è colui che oltre ad avere una serie di schiaccianti problemi economici con cui fare i conti, come la maggior parte degli altri giocatori, è più in grado di altri di sentirsi parte di una collettività, di tenere a mente che vi sono anche altre persone. Il suo livello di diffidenza e di malizia verso il prossimo è più basso di quello degli altri giocatori, e questo, sembra dirci la serie, inevitabilmente lo porterà alla morte. Lo vediamo dividere il cibo con gli altri e durante la prima partita, senza nessun calcolo relativo a tornaconto, salvare la vita a un altro giocatore, il protagonista, facendo tirare un sospiro di sollievo allo spettatore che da quando è iniziato il gioco “Uno, due, tre, STELLA” si sta probabilmente confrontando con la prima scena altamente perturbante della serie.
Eppure anche Alì, come tutti gli altri giocatori, decide di giocare. Anche Alì, pur con tutte le differenze che stiamo dicendo, condivide, suo malgrado, quella cultura fatta di disperazione e singoli individui, ove non è possibile vedere e riconoscere altri poteri, altre risorse, se non quella offerta dal denaro. Durante la seconda puntata, la scena in cui lui torna a casa dalla propria famiglia, dopo molti mesi di lavoro a mani vuote e dopo aver contribuito a creare un incidente grave al suo datore di lavoro, sembra esser lì a mostrarci quanto le condizioni di povertà materiali e di sfruttamento di cui è stato oggetto, arrivino a comprimere la possibilità di valorizzare altre cose, di fare appello ad altre risorse che non siano l’esigenza di ricorrere al denaro, da trovare nel modo più veloce possibile. Queste scene sembrano domandare allo spettatore, “tu, in queste condizioni, avresti partecipato agli Squid Games?”. Sembrano lì a suggerire che non sarebbe stato possibile fare altrimenti, esplicitando in tal modo la massima espressione della disperazione presente in questo tipo di cultura ossia la disperazione che deriva dal non poter riconoscere l’esistenza di alternative. Durante tutta la catena di agiti che Alì compie dopo aver inizialmente abbandonato gli Squid Games, crede sia impossibile o inutile rivolgersi alla legge, far fronte comune con gli altri operai sfruttati, richiedere assistenza a vario titolo, fare affidamento su possibili reti di aiuto di amici o parenti o servizi, vedere e cercare qualsiasi altro tipo di risorse attorno a sé. In quel momento Alì è precipitato in pieno nel vissuto della disperazione, si sente unicamente un individuo impotente entro un mondo di individui che pensano solo al proprio tornaconto, e questo lo porta a imboccare di nuovo la strada degli Squid Games, e quindi, alla morte. 
La disperazione che attraversa tanto i Vip, quanto le tute rosse, quanto i giocatori, è quindi un vissuto, un evento psicologico e non un mero dato di fatto. Questo vissuto, almeno per alcuni personaggi come Alì, si appoggia fortemente su alcune dimensioni fattuali, ma non si esaurisce completamente su di esse. I vissuti, nel momento in cui diventa possibile riconoscerli, aprono sempre a nuove possibilità, talvolta faticose, ma non sono mai delle gallerie da imboccare a senso unico. Potremmo obiettare che per riconoscere i vissuti bisogna almeno poter avere la pancia piena, e che il nostro povero Alì si trovi in condizioni molto difficili, ma questo non è del tutto vero, di per sé non basta: i Vip hanno tutta l’agiatezza che vogliono e nonostante ciò il vissuto di disperazione in loro urla più forte che mai. Per riconoscere vissuti occorre innanzitutto una competenza a pensare emozioni. 
Se è vera l’ipotesi proposta all’inizio di questo articolo, ossia che di Squid Game affascina e perturba l’ideale della violenza in essa espresso, a questo punto forse è possibile iniziare a capire come mai, ossia a capire qual è quel rimosso con cui Squid Game ci mette in contatto.
La cultura della disperazione rappresentata in Squid Game intercetta e mette sotto la lente di ingrandimento un vissuto che attraversa le società moderne: il sentirsi e pensarsi come “individui”, per come il pensiero economico ci porta oggi a pensare gli individui. Il sentirsi unicamente dei consumatori di risorse e quindi in necessaria competizione per esse, che se possono essere unicamente consumate, diventano scarse per definizione. Diversi sono tutti quei momenti della vita in cui ci sentiamo produttori di risorse, di saperi, di identità, di rapporti, di significati, e così via. Queste possibilità entro la cultura della disperazione sembrano essere non riconoscibili, non valorizzabili. Dalle bare inchiodate e mandate ai forni con dentro giocatori ancora vivi, al giocatore chirurgo che in combutta con alcune tute rosse toglie gli organi agli altri giocatori eliminati; dagli omicidi notturni tesi a eliminare più concorrenti possibili, all’ingannare i propri compagni di gioco; in ciascuna di queste scene la violenza non viene vissuta come tale da parte di chi la mette in atto, ma unicamente come uno strumento efficace per raggiungere il proprio fine. Il prezzo per fare questo diventa la disumanizzazione degli altri e di se stessi. Talvolta alcuni personaggi, vivono questo conflitto, se ne rendono conto, e così facendo diventano i personaggi con cui lo spettatore medio tollera di sentirsi più vicino.  
I personaggi di Squid Game nella vita reale sono le famiglie che decidono di mettersi su un barcone, sapendo che probabilmente quel barcone affonderà in mare; sono alcuni politici che avendo a mente solo la propria carriera ed il proprio potere personale affondano o lasciano affondare i suddetti barconi; sono le persone comuni che possono sentire la routine delle proprie giornate quasi del tutto priva di senso, che si trovano a portare avanti la propria vita senza più sapere bene perché. Ma sono anche quelle industrie, le multinazionali e le grandi corporazioni, che come i Vip di cui non si conosce l’esatta identità, vivono entro logiche di mercato profondamente organizzate sul principio mors-tua vita-mea, e come le vicende di cronaca ci mostrano periodicamente, sono disposte a fare qualsiasi cosa pur di sopravvivere; sono il mondo della finanza, che esiste unicamente per fare denaro dal denaro, senza nessuna produzione reale di beni e servizi, ma che drena la ricchezza così ottenuta dal lavoro prodotto nell’economia reale. Non a caso uno dei personaggi principali, Cho Sang-woo, viene ed esprime quel mondo. I personaggi di Squid Game nella vita reale sono gruppi di potere che spostano capitali enormi, che portano avanti guerre economiche che hanno ricadute vaste su interi settori del lavoro, sui paesi in via di sviluppo, nonché sui delicati equilibri climatici in corso.  

Viviamo in delle società che sotto molti parametri cercano di fare dell’individualismo una religione e della disperazione un credo. Disperazione come intesa in questo articolo, in un’accezione più ampia che include anche l’agiatezza dei VIP ed il modo in cui essi pensano a se stessi. Disperazione come la difficoltà a riconoscere il nesso che intercorre tra il ‘sentirsi vuoti o senza speranza’ ed il non saper riconoscere risorse attorno a sé; tra il sentirsi disperati ed il non sapersi muovere tra la posizione di consumatore di risorse e quella di produttore di risorse. Là dove per risorse, come detto altrove, si intendono rapporti, cultura, identità, ecc. ecc.
Squid Game mette in scena una cultura che ci attraversa tutti a diverso grado, che incontriamo in noi e negli altri ogni giorno, e con cui probabilmente facciamo fatica a stare in rapporto.
Il ‘ritorno del rimosso’ di cui sopra è la presa di contatto con questi elementi culturali che ci sforziamo di far convivere con il resto delle nostre rappresentazioni su noi stessi, con i nostri tentativi di essere bravi genitori, affettuosi compagni, figli, lavoratori, persone coinvolte a diversi livelli nella vita comunitaria. 

In conclusione, si può capire quanto il dibattito sul valore educativo di questa serie TV, posto nei termini del se sia giusto o meno farla vedere agli adolescenti, risulti fuori luogo. Così impostato rischia di rimanere un discorso effimero se non ipocrita. È possibile e forse in alcuni casi auspicabile, impedire di guardare Squid Game, ma non è possibile impedire di sentirsi membri della società con le sue contraddizioni. Che risorse abbiamo, nel discorso pubblico, ed entro i nostri diversi ruoli quotidiani, per rendere pensabili queste contraddizioni? 

Negli ultimi anni, similmente a quanto sta avvenendo per Squid Game, ha preso piede tutta una cultura tesa a riconsiderare le fiabe raccontate ai bambini. Entro questo modo di pensare i bambini e i prodotti che si rivolgono ad essi, tutta la precedente produzione fiabesca viene considerata troppo cruenta, cupa, perturbante. Vengono fatti sparire i lupi, le streghe, le mele avvelenate, le matrigne, gli orchi, i draghi, i fantasmi. Rimango cartoni animati e storie ove i problemi dei bambini vengono infantilizzati, ridotti a drammi da niente, che niente riescono a dire del loro reale mondo emozionale. Quello che non si coglie è che il mondo dei bambini, così come quello degli adolescenti o degli adulti, è già pieno di angosce. Non sono le fiabe a generarle, ma casomai sono le fiabe a renderle pensabili. Se una fiaba colpisce un bambino, se Squid Game diventa un fenomeno di massa, è perché quelle emozioni sono già profondamente presenti dentro di noi e chiedono di essere pensate. Eliminare il perturbante delle fiabe significa privarsi della possibilità di entrarci in contatto, di fantasticare e proiettare sopra dei simboli queste emozioni. Le fiabe offrono la possibilità di iniziare a mettere entro dei confini e delle forme, quelle dei simboli della fiaba, l’emozionalità vissuta nel quotidiano quando mamma e papà litigano o quando magari ci si sente esclusi dal loro amore; quando un giocattolo vissuto come una parte di sé si rompe; quando il gatto domestico muore; quando un amichetto preferisce qualcun altro, quando ci si trasferisce in un altro quartiere, e così via. Qualcosa di simile avviene tra l’ideale della violenza presentato in Squid Game e la violenza istituzionalizzata, normalizzata, con cui veniamo in contatto e di cui siamo partecipi ogni giorno. È una violenza che a qualche livello cogliamo ma che almeno in parte rimuoviamo dalla coscienza per non doverci sentire profondamente in crisi entro la società in cui viviamo. In questo senso, a poco serve scandalizzarsi, trovare capri espiatori, ricondurre e circoscrivere la violenza alla serie TV di turno. Questa “soluzione” è un modo di stare in rapporto con le proprie emozioni che rischia di diventare un processo infinito molto costoso in termini di convivenza: si ha sempre bisogno di un untore a cui dare le responsabilità per sentirsi puliti, dalla parte del giusto, per non dover fare i conti con le contraddizioni presenti in casa propria. Assai più interessante può essere, attraverso lo sviluppo di una vita interiore fatta di affetti, di cultura, di interessi, attrezzarsi a riconoscere le eventuali contraddizioni in noi stessi e nelle culture che viviamo. Culture che preesistono a noi, ma di cui di cui ogni giorno per il genuino bisogno di stare in rapporto con gli altri, ci facciamo interpreti.

Verso un’ecologia della mente – Gregory Bateson

«L’ecologia della mente» scrive Bateson in apertura di questo volume, che contiene i suoi più importanti scritti teorici, «è una scienza che ancora non esiste come corpus organico di teoria o conoscenza». Ma questa scienza in formazione è nondimeno essenziale. Essa sola permette di capire, ricorrendo alle stesse categorie, questioni come «la simmetria bilaterale di un animale, la disposizione strutturata delle foglie in una pianta, l’amplificazione successiva della corsa agli armamenti, le pratiche del corteggiamento, la natura del gioco, la grammatica di una frase, il mistero dell’evoluzione biologica, e la crisi in cui oggi si trovano i rapporti tra l’uomo e l’ambiente». Non ci si lasci sviare dalla voluta paradossalità della formulazione: Bateson non è soltanto uno straordinario suscitatore di idee, ma l’autore di alcune capitali scoperte concrete. Basti pensare a quella del «doppio vincolo», che ha permesso di impostare in termini del tutto nuovi la questione della schizofrenia (influenzando in modo decisivo tutto il movimento antipsichiatrico) ed è diventata un punto di riferimento prezioso anche per gli epistemologi e i teorici della comunicazione.5abe9721515e087f19683476cbae9eb5_w_h_mw650_mh

Istruzioni per rendersi infelici – Paul Watzlawick

“È giunta l’ora di farla finita con la favola millenaria secondo cui felicità, beatitudine e serenità sono mete desiderabili della vita. Troppo a lungo ci è stato fatto credere, e noi ingenuamente abbiamo creduto, che la ricerca della felicità conduca infine alla felicità”. Watzlawick costruisce qui uno specchio ironico che, pur tenendo viva una costante tensione tra il divertimento e il disagio di riconoscersi, non priva il lettore del piacere di interpretare il messaggio: come rendersi felicemente infelici?”

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Massimo Recalcati. Cosa resta del ruolo del Padre

Edipo? No, Telemaco! Il classico “complesso”, che la psicoanalisi chiama in causa per spiegare l’evoluzione della psiche nell’infanzia, sarebbe ormai pronto per essere mandato “in pensione”. Lo afferma Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano, protagonista, il 29 febbraio, nell’auditorium dell’Istituto Magistrale “Contessa Tornielli Bellini” di Novara, dell’incontro intitolato “Cosa resta del padre. La paternità nell’epoca ipermoderna”, primo di cinque appuntamenti “del mercoledì sera”, che Passio 2012 dedica alla riscoperta del ruolo paterno, in collaborazione con il Punto informativo dell’Ordine degli psicologi.